Meditando uno dei testi di don Puglisi, rimasto inedito fino all’apertura della causa di beatificazione nel 1999, sembra di leggere un anticipo del suo destino: «La testimonianza cristiana è una testimonianza che va incontro a diffıcoltà, una testimonianza che diventa martirio; infatti testimonianza in greco si dice martyrion. Dalla testimonianza radicale al martirio il confine è labile: testimonianza e martirio dovranno dare fiducia a chi, nel profondo, conserva rabbia nei confronti della società, che vede ostile […]. A chi è disorientato — conclude — il testimone della speranza indica non cosa è la speranza, ma Chi è la speranza».
È diventato quasi uno slogan uno degli insegnamenti di don Puglisi — «se ognuno fa qualcosa, si può fare molto» —, che proponeva con grande realismo e senso del limite: «Le nostre iniziative e quelle dei volontari devono essere un segno. Non è qualcosa che devono trasformare Brancaccio. Questa è un’illusione che non possiamo permetterci. È soltanto un segno di fornire altri modelli, soprattutto ai giovani. Lo facciamo per poter dire: dato che non c’è niente, noi vogliamo rimboccarci le maniche e costruire qualche cosa. E se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto».
Per don Puglisi il cristianesimo è anzitutto esperienza di vita che diventa messaggio; lo ribadisce in una delle sue ultime lettere a coloro che lo stavano minacciando con ripetuti atti di intimidazione: «Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono a ostacolare chi tenta di educare i vostri figli al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile».
Don Pino non ha voluto diventare un eroe, ma ha voluto rimanere semplicemente e coerentemente prete. Era un uomo inerme, vulnerabile, armato soltanto di quel sorriso che ha convertito anche il suo assassino. Le persone che lo hanno conosciuto ricordano la sua ironia; non si prendeva troppo sul serio, scherzava anche sulle sue grosse orecchie. Anche per lui valgono le parole che il Signore ha rivolto a Paolo quando gli chiedeva aiuto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). Parole che erano entrate nella carne don Pino tanto da rispondere come l’apostolo: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo» (ivi).
Come educatore, più che parlare «dei» giovani, sceglieva di stare e di parlare «con» i giovani che incontrava nelle parrocchie, nelle scuole, o negli incontri che organizzava come responsabile vocazionale a livello diocesano o regionale.
Don Puglisi sapeva che molti ragazzi del quartiere, per poter lavorare, erano costretti ad appartenere a Cosa Nostra per ottenere quelli che altrove erano diritti, come il lavoro, l’istruzione, la giustizia. Ma don Pino non smette di sperare in un futuro migliore per loro. Così, invece di erigere barriere — lui che era affettuosamente chiamato dai suoi giovani 3P —, ha costruito ponti di relazione tra giovani. In che modo lo ha fatto? Non costruendo un’alternativa politica ma spirituale e culturale: «Per cambiare il cuore della gente, occorreva una nuova evangelizzazione e questa non richiedeva l’opera di un eroe solitario, ma di una comunità coraggiosa e coesa». La strategia dell’azione pastorale si basava sulla formazione delle coscienze, l’amore per gli ultimi, la denuncia del male, l’invito alla conversione, il ritorno dei peccatori a Dio, l’annuncio del Vangelo, la promozione della giustizia.
La testimonianza del fratello di don Pino Puglisi.
Uccidendo don Puglisi, Cosa Nostra ha cercato di intimidire e uccidere la fede del credente. Ma uccidere il corpo non basta; la vita di don Puglisi risuona oggi nelle coscienze degli uomini di buona volontà per affermare che l’amore vince la morte, il perdono è più forte della vendetta, la testimonianza autentica indica che un modo alternativo di vivere è possibile.
Alla comunità credente rimane un compito: non dimenticare il sacrificio di don Puglisi.
Nel quaderno n. 3913 Civiltà Cattolica ha pubblicato il profilo di “Don Pino Puglisi. Il Martire di Brancaccio“.