Dal quaderno n. 4041 de La Civiltà Cattolica (il 25% dell’intero articolo).
I luoghi che si abitano raccontano sempre una storia: narrano quello che sono, ma anche ciò che avrebbero potuto essere. Come l’ex Arsenale militare di Torino che, da luogo di produzione di armamenti, si è trasformato in un’esperienza comunitaria di pace, di accoglienza e di integrazione .
Quell’area industriale sulle rive del Dora, estesa per circa 4 ettari, è stata edificata per la prima volta nel 1580 con la Regia Fabbrica delle Polveri e Raffineria dei Nitri. Da allora, fino agli anni Sessanta del secolo scorso, in quel luogo sono state costruite armi – artiglierie di piccolo e medio calibro, carri e materiali di selleria – per le guerre del Risorgimento e per le due guerre mondiali . La struttura attuale è quella ricostruita nel 1867 con mattoni rossi, tipici dell’architettura industriale ottocentesca, dopo l’esplosione di 25 tonnellate di polvere da sparo. A cambiarne la destinazione d’uso sono state le persone che la abitano: da luogo di guerra l’arsenale militare è stato trasformato in un «monastero metropolitano» a servizio della pace.
La riconversione dei ruderi dell’Arsenale inizia da un sogno che in molti ritenevano un’utopia. Eppure, nei desideri dei giovani del Sermig (Servizio missionario giovani) era già inscritto l’avvenire.
Quel gruppo di ventenni, nato nel 1964 dall’intuizione di Ernesto Olivero nell’ambito dell’Ufficio missionario dell’arcidiocesi di Torino, ha come ideale quello di sradicare la fame nel mondo e sostenere i progetti dei missionari. La forza del dialogo permette a quei ragazzi di incontrare gli ultimi e chi detiene ruoli di responsabilità, i maestri e i testimoni del tempo:
«Se non ti schieravi, era come se non contassi nulla. E purtroppo, questo stile aveva contagiato anche tanti gruppi nella Chiesa. Noi […] volevamo essere semplicemente cristiani, semplicemente uomini e donne di buona volontà, perché le etichette ci stavano strette: erano troppo piccole per contenere i nostri ideali»
Il 2 agosto 1983 il sindaco di Torino, Diego Novelli, accoglie l’insistente richiesta del Sermig e decide di assegnare il primo padiglione della struttura, con un comodato gratuito che prevede la ristrutturazione dello stabile. Quel giorno Olivero sceglie di entrare nel rudere in un modo particolare:
«Avevo con me la Bibbia che mi aveva regalato il mio arcivescovo, padre Michele Pellegrino, un crocifisso realizzato da alcuni carcerati e dei libri di Luisa Manfredi King, una mia amica partigiana, non credente. Entrai così, a nome di tutti, con un sogno nel cuore: quell’Arsenale di Pace, che vedevo già fatto, sarebbe stato una casa sempre aperta, una casa accogliente, con qualcuno sempre pronto ad ascoltare, a fasciare, a consolare, a dare una carezza. Soprattutto, qualcuno che avrebbe deciso intimamente di non giudicare mai».
L’Arsenale della Pace di Torino ospita uomini e donne senza dimora, madri con bambini piccoli, rifugiati, un poliambulatorio gestito da medici volontari. Ma è anche una casa per i giovani che ogni anno passano a migliaia da Torino per vivere esperienze di volontariato, spiritualità e servizio. Per loro sono nati una scuola di restauro e un’accademia musicale; e ancora, progetti mirati per costruire dal basso l’integrazione in uno dei quartieri più complessi di Torino; corsi di alfabetizzazione; l’Arsenale della Piazza e il Nido del Dialogo, un oratorio e un polo per l’infanzia multietnici con oltre 200 bambini di 20 etnie diverse.
Attraverso alcune regole – come l’uso della lingua italiana, il rispetto reciproco, la conoscenza dei valori della Costituzione – essi crescono insieme nonostante i giudizi e pregiudizi, in molti casi alimentati dalle famiglie. Alcuni di loro, ormai cresciuti, sono diventati a loro volta animatori, per trasmettere ai più piccoli lo stesso spirito e metodo. Anche questo è un percorso di cittadinanza.
E poi i giovani, il loro accompagnamento, la possibilità di fare volontariato e gli appuntamenti mondiali dei «Giovani della Pace», incontri che si svolgono periodicamente nelle piazze di diverse città con la presenza di migliaia di giovani e adulti: l’immagine concreta di un dialogo tra generazioni che in 15 anni ha visto la partecipazione di oltre 200.000 persone.
Tutto questo, senza rinunciare al sogno iniziale di sconfiggere la fame nel mondo con decine di spedizioni umanitarie ogni anno, coordinate dall’Arsenale di Torino.
Quando si parla di progetti, i numeri non sono tutto, ma possono dire molto: 100 amici della Fraternità, 150.000 tra amici e sostenitori, 6.000 volontari (giovani, studenti, professionisti, tecnici, casalinghe), 77 missioni di pace, oltre 3.500 interventi e progetti di collaborazione e sviluppo nei 5 continenti . Il valore economico, calcolato dal 1964, è pari a un miliardo di euro, coperto al 93% dalla gente comune e al 7% da enti privati e pubblici in Italia e Brasile.
Oggi l’esperienza respira con il polmone dell’«essere» – la Fraternità della Speranza, composta da monaci, monache, sacerdoti e laici uniti da una regola di vita, la «Regola del Sì» – e con il polmone del «fare», che va dai progetti di collaborazione e sviluppo nei 5 continenti al servizio di accoglienza delle persone più deboli e di accompagnamento dei giovani per vivere esperienze di volontariato, spiritualità e servizio. Anche i numeri, che non sono tutto, testimoniano i frutti del sogno di quel gruppo di ventenni.
L’esperienza del Sermig insegna a distinguere la ricerca della pace evangelica dal pacifismo ideologico: una proposta politica per essere nel mondo, ma non del mondo.
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Il 21 dicembre alle h. 18.00 nella sede della Civiltà Cattolica terremo una conferenza con il fondatore del Sermig, Ernesto Olivero e con il Consigliere del Presidente della Repubblica per l’Informazione, Gianfranco Astori.