Tratto da Il Riformista del 28 novembre 2019
I giudici della Corte Costituzionale si sono addentrati ancora una volta in una terra di nessuno, una sorta di spazio sacro che impaurisce il legislatore povero di categorie antropologiche e bloccato da quelle ideologiche. La posta in gioco era il «diritto a morire». La Corte, in assenza di una legge, è stata chiamata a decidere se Cappato era punibile dai 5 ai 12 anni di carcere per aver accompagnato e aiutato a morire in Svizzera, il 27 febbraio 2017, Fabiano Antoniani, conosciuto come Dj Fabo, dal 2014 paraplegico e cieco dopo un incidente d’auto. Così è stato introdotto nell’art. 580 del Codice penale una scriminante che giudica «non punibile» la condotta di chi agevola l’esecuzione del proposito di togliersi la vita quando «l’aiuto riguarda una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (quali, ad esempio, l’idratazione e l’alimentazione artificiale) e affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma che resta pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». La norma, che è autoapplicabile, avrà però bisogno che il Servizio sanitario nazionale accerti le quattro condizioni citate, rispetti la normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda e senta il comitato etico territorialmente competente.
Si tratta di quattro circostanze rigorose e stringenti che segnano una tappa di un cammino culturale e giuridico sul tema del fine vita iniziato nel 2006, quando i giudici si pronunciarono sul caso di Piergiorgio Welby. La seconda tappa nel 2007 quando la Cassazione accolse il ricorso del padre e tutore di Eluana Englaro di interrompere l’alimentazione forzata per le sue condizioni di stato vegetativo. Nel 2010, con la legge n. 38 sui trattamenti sanitari, il legislatore ha riconosciuto il dolore come una malattia e il diritto a non soffrire, mentre nel 2017 è stato approvato il consenso informato che permette di «esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari» (legge n. 219/2017).
A disciplinare materie delicate come il fine vita sono sempre più i giudici e sempre meno i parlamentari, che inseguono e aggiustano la materia senza però riuscire a regolarla organicamente. Così facendo, si costringono i giudici a regolare casi particolari e a farli diventare norme generali. È per questo che vorremmo “sostare” culturalmente per condividere alcuni elementi antropologici utili al dibattito sul fine vita.
Anche papa Francesco, nel novembre del 2017, aveva raccomandato di trattare con delicatezza le complesse problematiche relative al fine vita, precisando che «è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona».
È utile chiedersi: quando si muore, chi muore? La vita non si riduce al solo significato biologico, alle reazioni biochimiche che si studiano in un laboratorio, ma anche al significato biografico, costituito dall’incontro con se stesso, con gli altri, con il mondo e, per il credente, con Dio. Morire con dignità significa, per la persona malata nella fase terminale della malattia, il diritto a un’assistenza che risponda ai bisogni della sua dimensione biologica, ma anche a quelli delle sue dimensioni biografiche, come quelle psicologiche e spirituali. Il presupposto antropologico è il significato più ampio di «salute», che dal latino salus richiama la salvezza.
Occorre capovolgere la prospettiva comune descritta da Søren Kierkegaard: «Quando la morte è il più grande pericolo, si spera nella vita; ma se si vede un pericolo ancora più tremendo, si spera nella morte. Quando dunque il pericolo è così grande che la morte è diventata la speranza, la disperazione è la non speranza di non poter nemmeno morire».
La medicina altamente tecnologizzata – per la quale la morte è un incidente e una battaglia da vincere – costringe a riformulare alcune delle domande radicali dell’esistenza. Ad esempio: quando la vita passa la soglia della morte? L’invasività della tecnica non prepara la persona a consegnarsi alla morte, ma a un liberarsi o meno dall’ultimo laccio che la intrappola alle macchine che la tengono in vita. Non è questo un paradosso? La tecnoscienza non può conoscere né il dolore né l’angoscia della morte.
Mettere al centro il significato della dignità della vita e della dignità del morire come atto del vivente aiuterebbe ad approfondire culturalmente il verbo «morire» per dare senso al sostantivo «morte». È per questo che prima di risposte preconfezionate è utile porsi le domande giuste e ripartire dalle esperienze che coinvolgono e toccano interi nuclei familiari.
Il primo passo è quello di interrogarsi pubblicamente sulle ragioni del dolore e della morte. Lo abbiamo ribadito anche nelle pagine della Civiltà Cattolica: il centro della nuova legge non potrà che basarsi sulla condivisione della scelta alla quale concorrono il malato, quando è ancora cosciente, i medici e i familiari nell’ambito di una valida relazione di cura. Fuori da questa relazione fondante e in assenza di limiti, «staccare la spina» finirà per essere un arbitrio contro il valore della vita, che rimane sacra anche per la cultura laica. La crisi tocca invece il significato di relazione che nella costituzione si declina nei principi di solidarietà e del personalismo. Invece di diventare persone, essere in relazione con altri, si regredisce a individui. Sono, invece, la personalizzazione e il caso concreto il crocevia della libertà intesa come senso di responsabilità. Basti un dettaglio: la sentenza della Corte è nutrita da una espressione che converte il dibattito, non si tratta di chiedere il suicidio, ma di decidere di “accogliere la morte” sospendendo l’accanimento delle cure.
Nella sentenza della Corte costituzionale si trovano molti elementi per un dibattito maturo e adulto da fare in Parlamento: dall’autodeterminazione del paziente, intesa come principio non assoluto, alla protezione dei soggetti deboli come i minori; dall’obbligo di rimanere in un contesto medico all’interno di una struttura pubblica al parere del comitato etico necessario per prendere una decisione; dall’esclusione categorica che l’eutanasia sia ammessa come «atto medico» al divieto per le cliniche private, come quelle in Svizzera, di diventare i luoghi della dolce morte e centri per nuovi business.
La Corte non ha previsto l’obbligo di prestare assistenza al suicidio, invece ha affermato la libertà di scelta per il medico. L’obiezione di coscienza presupporrebbe un obbligo di prestare assistenza al suicidio. «La garanzia assicurata è più forte, ha precisato Cesare Mirabelli -, implica che non si è in presenza di una prestazione sanitaria dovuta e valorizza la deontologia professionale, che esclude che il medico compia atti che provochino la morte del paziente, anche se ne è richiesto».
È dunque possibile trovare un punto di equilibrio tra la posizione libertaria, che considera il principio di autodeterminazione un assoluto, e la posizione statalistico-paternalista della legislazione vigente, che non include l’autodeterminazione del soggetto. Lo ribadisce la Corte costituzionale, che «guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi», e chiede al Parlamento di «proteggere il soggetto da decisioni in suo danno».
In Parlamento sono depositate 10 proposte di legge: per quale ragione manca un vero dibattito parlamentare su questo tema? Qual è il valore primo del legislatore? Rafforzare una relazione, o esaltare (solo) l’autonomia dell’individuo? È sufficiente sostenere che la persona è sovrana della sua morte? Le leggi che disciplinano il fine vita possono essere regolate dall’utilitarismo, attento a tagliare le spese sanitarie, liberare dai sacrifici chi assiste, evitare la sofferenza? Oppure devono essere nutrite dalla cura della dignità umana e dalla pietas, che è responsabilità di accompagnare a morire con dignità?
Il legislatore, senza sfidare la sentenza, è chiamato a rimanere nel solco della direzione tracciata dalla Corte e circoscrivere le clausole. Anche questo è riformismo: rispettare la volontà della Corte, che si è limitata a decidere su persone capaci di decidere autonomamente e che non intendono avvalersi delle cure palliative, ma non sono in grado di «togliersi la vita» autonomamente, come è stato il caso di Dj Fabo.
Se il Parlamento sceglie di promuovere il principio di autoderminazione – secondo il quale una persona può decidere di disporre della propria vita autonomamente –, deve anche garantire le cure necessarie perché si possa prendere una decisione serena, come l’aiuto concreto alla solitudine dei caregiver (le relazioni familiari che si prendono cura del paziente), l’assistenza domiciliare, con incluse le cure palliative, un assegno familiare congruo per le spese da sostenere e così via.
La soglia antropologica per incontrarsi fra tradizioni culturali diverse sul tema del fine vita rimane quella di riconciliare la personalizzazione della medicina e la sua umanizzazione con la tecnicizzazione della medicina stessa, in cui l’azione del «curare» (to cure) la malattia matura insieme al «prendersi cura» (to care) anche del mondo affettivo, relazionale, psicologico e spirituale del paziente.
La scelta politica di fondo per il Parlamento è quella di ritornare alla fonte dell’esperienza dell’ammalato, della sua famiglia e del contesto sociale e relazionale, altrimenti i detriti portati alla foce continueranno a paralizzare il dibattito parlamentare a causa delle divisioni, delle fazioni ideologiche e degli interessi particolari dei singoli partiti e dei gruppi di lobby utilitaristiche pronte a speculare e che, come dei grandi corvi, invece di difendere la vita, sperano si imponga la cultura della morte. È di loro che dobbiamo temere.
Anche per questo la Corte costituzionale ha chiesto al Parlamento di intervenire rapidamente perché la sentenza rappresenta una fessura in una diga che potrebbe cedere da un momento all’altro e cancellare a livello culturale e medico, secondo l’antico principio de iure condendo, le restrittive condizioni giuridiche imposte dai giudici. Lo ribadiamo anche noi, nessuno sia lasciato solo.
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