Era il 9 maggio alle 12,30, quando il brigatista Valerio Morucci, 29 anni, uno dei cervelli dell’operazione, chiamò al telefono Francesco Tritto, un assistente universitario di Moro per dirgli che il presidente della Democrazia Cristiana era stato assassinato: «Lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani. Lì c’è una R4 rossa. I primi numeri di targa sono N5». Le immagini del suo corpo senza vita trasmesse dalla Rai hanno fermato le lancette della memoria collettiva e della vita democratica a quel momento. Moro, ammazzato con 12 colpi, morì per dissanguamento.
Il Paese lo pianse con le struggenti parole di Paolo VI, suo maestro e amico: «E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui».
Purtroppo, il rischio dell’oblio è dietro l’angolo, non solamente perché da un’inchiesta fatta nelle scuole italiane è emerso che circa il 70% dei ragazzi non sa chi sia stato, ma per il rischio di ridurre la sua eredità e i 62 anni della sua vita al «caso Moro» e ai 55 giorni della sua prigionia .
Sono almeno tre gli insegnamenti che ci lascia. Anzitutto quello della fedeltà al patto costituzionale.
La Costituzione, secondo Moro, è nata da un «patto antifascista» che egli spiega in aula il 13 marzo 1947 con l’immagine della casa comune in cui si convive tra diversi:
«Se nell’atto di costruire una casa nella quale dobbiamo ritrovarci tutti ad abitare insieme non troviamo un punto di contatto, un punto di confluenza, veramente la nostra opera può dirsi fallita. Divisi – come siamo – da diverse intuizioni politiche, da diversi orientamenti ideologici, tuttavia noi siamo membri di una comunità, la comunità del nostro stato e vi restiamo uniti sulla base di un’elementare, semplice idea dell’uomo, la quale ci accomuna e determina un rispetto reciproco degli uni verso gli altri»[
È nella I Sottocommissione che Moro concorre a formare i primi dodici articoli della Costituzione impregnati dei princìpi di libertà e giustizia, di uguaglianza e solidarietà, di pluralismo e di non violenza. Era il sogno di una società diversa da quella delle leggi razziste del 1938 e dell’odio degli anni della guerra. Sembra dirci: indietro non si può ritornare!
Secondo. Moro è stato un riformista convinto. Nel 1963 Moro diventa presidente del Consiglio del primo governo organico di centro-sinistra, ma l’esperienza politica termina nel 1968, quando gli elettori puniscono i partiti del centro-sinistra e determinano la crisi di quella stagione. Gli anni Settanta sono un decennio di rapido cambiamento: nascono le prime tv commerciali e il Parlamento approva il primo statuto dei lavoratori (1970), giungono in porto la legge sul divorzio e sull’obiezione di coscienza, il nuovo diritto di famiglia, la riforma della sanità, la legge sull’aborto e così via. Tuttavia, il Paese è lacerato da forti contrasti sociali, esasperato dalla politica dell’austerità e dell’inflazione che costringeva i commercianti a pagare il resto utilizzando caramelle, francobolli e gettoni del telefono. Sono gli «anni di piombo» con le loro 600 vittime e oltre 3.000 feriti: da una parte la destra eversiva con progetti autoritari, responsabile delle stragi in Piazza Fontana nel 1969 e in piazza della Loggia a Brescia nel 1974; dall’altra il terrorismo rosso con più di 200 gruppi armati, che mira alla presa del potere rivoluzionario attraverso la violenza . In mezzo a mille contrasti ha riformato e riformato la politica a partire dalle aperture ai socialisti.Ha insegnato la capacità di vivere pienamente il presente politico pensando alla sua trasformazione: dalla Costituente, è passato al centrismo, poi al centrosinistra poi al tempo della solidarietà nazionale infine ha saputo elaborare il tempo incompiuto dell’alternanza. Tuttavia, il domani lo può preparare solo chi passa attraverso un percorso di formazione, unico antidoto ai «mestieranti» di ieri e di oggi, direbbe Sturzo.
Terzo. E’ stato un parresiasta, ha ricercato la verità anche davanti alla sua morte. «La verità è l’unica forma di giustizia possibile», ha affermato il figlio, Giovanni Moro. Davanti all’immagine fissata nella memoria pubblica del corpo di Moro senza vita, sacrificato come un agnello, rimane la responsabilità di costruire la giustizia non come vendetta che aumenta l’odio e offusca la verità, ma come riparazione del male fatto.
La giustizia intesa come riparazione ce la insegna silenziosamente Agnese Moro attraverso un cammino lungo e faticoso, che l’ha portata sulla tomba del padre il 17 giugno 2012 nel piccolo cimitero di Torrita Tiberina, a nord di Roma insieme ad altri familiari di vittime del terrorismo rosso e nero, due killer della strage di via Fani e la «postina» dei comunicati delle Br. Sulla tomba del padre, Agnese Moro li incontra. È la condivisione delle memorie e l’aver pagato il debito con la giustizia che ha permesso di fare il primo passo.
Così Agnese Moro ha scritto ai terroristi del padre dopo aver riletto le terribili pagine dell’autopsia che parlano dell’agonia del padre:
«Dopo questa lettura — ha precisato Agnese — sono stata davvero sicura di non aver annacquato nulla; che il mio cammino verso di voi, come il vostro verso di noi, è stato fatto senza semplificare e senza mettere niente tra parentesi».
È una direzione verso cui fare verità, è un seme culturale, ma anche l’inizio di nuove forme di verità epistemologica e sociale.
Per approfondire leggi lo studio pubblicato da La Civiltà Cattolica
Tra i tanti stimoli e oltre alle emozioni colgo soprattutto il richiamo alla memoria, quella vera, che sarebbe una manna per i tanti, giovani in particolare, che stanno attraversando il deserto, mai abbandonati