Sono già trascorsi 70 anni da quando, il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riunita a Parigi approvava con la Risoluzione n. 217/III la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», definita dai suoi redattori «faro di speranza», «il Codice di morale internazionale». Rappresentava il riscatto della coscienza sociale mondiale dagli orrori subiti nella II guerra mondiale.
È vero, la Dichiarazione è una raccomandazione, vive solo se si ripone fede in essa, è una «dichiarazione di princìpi», che non ha valore vincolante per le legislazioni statali. Nei fatti, però, ha ispirato le 130 Convenzioni giuridiche ancora in vigore e le circa 90 Costituzioni nazionali nate o revisionate dopo il 1948. Per giunta, è il documento giuridico più conosciuto e citato al mondo, tradotto in 336 lingue nazionali e locali. Il testo, strutturato in un prologo e 30 articoli, è un esempio di eleganza e chiarezza giuridica, garantisce dignità e giustizia ed è l’argine di qualsiasi discriminazione di sesso, razza, colore, lingua, religione e opinione politica.
Mentre celebriamo quella Carta, sembra una provocazione vederne sistematiche violazioni. Perché i diritti umani “regnano ma non governano” e, spesso, nel loro nome si compiono le più feroci crudeltà? Perché invece che essere rafforzati ed estesi, sono sempre più compressi?
C’è chi li ritiene un prodotto dell’Occidente illuminista, per altri sono il frutto di un’etica individualistica. Nel tempo dei muri e dei fili spinati, delle barche lasciate in mezzo al mare, assistiamo a politiche contrarie ai diritti umani, alla loro efficacia e alla loro obbligatorietà. Il punto centrale è: se non sei cittadino e sei solo persona, i diritti universali non valgono. È il potere politico che siede su ciò che dovrebbe riconoscere e servire, gli Stati sono più forti del destino comune dell’essere uomini e donne sulla terra. Il nudo corpo non basta più, serve essere rivestiti da cittadini per essere riconosciuti degni di diritti (e dei conseguenti doveri).
Quando questa memoria si eclissa ritornano i genocidi, come quello del Rwanda, in cui nel 1994 in soli 100 giorni vennero massacrate mezzo milione di persone; gli stermini, come quelli dell’11 luglio 1995 a Srebrenica, in cui in 72 ore vennero ammazzati 8.000 bosniaci; i campi profughi del Medio Oriente, e tante altre violazioni in molte parti del mondo.
Per elaborare la Dichiarazione furono necessari due anni di lavoro,
mentre per raggiungere un accordo sulla convenzione da stipulare
e sulle misure di attuazione da applicare si dovette aspettare il 1966. Sul clima politico e sociale pesavano gli orrori della seconda guerra mondiale appena conclusa, in cui morirono quasi 55 milioni di persone, e la divisione del mondo in due blocchi. Inoltre ai rappresentanti degli Stati, diversi per cultura e religione, filosofia e antropologia, risultava impossibile definire univocamente quei princìpi minimi su cui fondare la Dichiarazione come, ad esempio, il concetto di «sovranità», quello di «essere umano» e quello di «diritto». Eppure, nonostante tali premesse, fu raggiunto un accordo.
La Dichiarazione, il cui stile letterario rappresenta ancora oggi un esempio di eleganza e di chiarezza giuridica, è composta da un Preambolo e 30 articoli. Se volessimo rappresentare la sua struttura con un’immagine, dovremmo pensarla come una piramide rovesciata, il cui vertice, rappresentato dal «riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, […] fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo», poggia sul terreno della storia e sostiene l’intera struttura. La portata universale di questo principio, troppo spesso dato per scontato o volutamente ignorato,
si basa sul riconoscimento di un dato «naturale», quello della dignità umana caratterizzata dal riconoscimento che tutti gli esseri umani «sono dotati di ragione e di coscienza» e che i loro diritti e doveri sono sia «prepolitici», vale a dire non dati o garantiti dalla politica, sia «apolitici», che non attengono alla scelta discrezionale della politica e dell’economia, ma sono un dato umano essenziale e originario che è di natura antropologica. I diritti umani «preesistono dunque alla legge scritta. Diventano ius positum in virtù del loro “riconoscimento”, non della loro attribuzione, come avviene invece per i meri diritti “soggettivi”».
C’è di più. La riflessione sui diritti umani va fatta a partire dalle loro radici: una di queste è quella cristiana. Farne a meno significa svuotarli di senso e falsare l’idea di libertà. Solo se è “libertà per” e nasce da una visione dell’uomo che riconosce un “momento fondativo” per cui la dignità è intangibile, un pre-dato giuridico, si riconosce l’uguaglianza sostanziale delle persone.
In Europa, tra le norme internazionali ispirate alla Dichiarazione e che hanno un impatto diretto sulla legislazione italiana troviamo i princìpi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo adottata il 4 novembre 1950 dai
Paesi dell’Europa Occidentale del Consiglio d’Europa. La dottrina giuridica si è chiesta se fosse necessario ribadire diritti e libertà già contenuti nella Costituzione italiana. Antonio Cassese ritiene che la Convenzione abbia almeno quattro meriti: «Ha creato per l’Europa, uno spazio di democrazia e di libertà nel quale vengono affermati e praticati una serie di princìpi essenziali sulla dignità della persona umana» 15; ha introdotto princìpi
non previsti dalla Carta costituzionale italiana, come il diritto
alla riservatezza o il diritto all’indennizzo in caso di arresto o detenzione arbitraria; ha predisposto un meccanismo internazionale di garanzia, la Corte europea dei diritti dell’uomo con sede a Strasburgo; ha permesso meccanismi di tutela, che sono «un’importante presidio contro possibili involuzioni autoritarie», perché non si ripetesse ciò che avvenne nella Grecia dei colonnelli o nel colpo di Stato in Turchia all’inizio degli anni Ottanta. Date queste premesse si ha l’impressione che in Italia la cultura dei diritti umani potrebbe essere più consolidata se gli organi d’informazione
dedicassero alle decisioni della Corte almeno lo spazio riservato
negli altri Paesi europei, e se avvocati e giudici tenessero maggiormente
in conto le sentenze della Corte di Strasburgo. Il Trattato di Lisbona, infine, che modifica i trattati europei ed è stato firmato il 13 dicembre 2007 dai Capi di Stato e di Governo dei 27 Stati membri (non ancora entrato in vigore), oltre a ribadire i princìpi fondanti dell’Unione Europea, conferisce alla Carta dei diritti fondamentali un effetto vincolante, attribuendole lo stesso valore giuridico dei trattati.
La Chiesa difende i diritti umani, lo insegnano il Concilio Vaticano II e l’enciclica Pacem in terris, che li definisce “segno dei tempi”. I pronunciamenti magisteriali difendono non teorie, ma volti sofferenti e oppressi. Si sta battendo contro la pena di morte, contro le nuove forme di schiavitù, per la dignità dei migranti, per una giustizia che non sia vendetta e così via.
Nelle sedi internazionali la Chiesa difende il valore della vita soprattutto quando, come ha affermato il Cardinale Pietro Parolin, “cessa di essere un dono e viene considerata una proprietà, di cui ciascuno può liberamente disporre nei limiti posti dal semplice consenso della maggioranza” (15 novembre 2018).
Oltre ai diritti di prima e seconda generazione, si parla anche di
una terza generazione di diritti, in relazione alla pace, allo sviluppo e
all’ambiente. Sono i diritti propri dell’era dell’interdipendenza mondiale,
la cui realizzazione deve fondarsi sulla solidarietà e la cooperazione
multilaterale. Per poter far questo, però, è utile che le popolazioni
e le culture si pongano una domanda radicale: «Chi è la persona
titolare di diritti?». La risposta a questa domanda risiede nelle soluzioni pratiche del modo nel quale uno Stato rispetta gli immigrati,
i carcerati, i poveri, le famiglie bisognose, i bambini abbandonati, le
donne violentate, gli anziani, i rifugiati e gli sfollati che sono circa 45
milioni. L’Italia può dirsi rispettosa di questa nuova etica?
Esiste una via d’uscita sola: credere, insegnare e testimoniare i princìpi della Dichiarazione per costruire un mondo migliore. Occorre ricominciare da “posti piccoli, vicino a casa, il quartiere in cui si vive, la scuola che si frequenta, la fabbrica, il campo o l’ufficio in cui si lavora”, è quanto ricordava Eleanor Roosevelt, una tra i protagonisti della Dichiarazione. Se si vuole che i diritti umani restino a illuminare la nostra convivenza, ciascuno faccia la propria parte.