Il premio Emilio Rossi è stato assegnato a Roma il 2 febbraio 2019 nella sede della Civiltà Cattolica. Qui il racconto dell’evento. A margine una mia breve precisazione.
Lo spirito di quello che un giornalista fa può essere riassunto da una frase di questi giorni di Lucio Brunelli: “Da come racconti le cose, si capisce quello che sei”. L’obbedienza al vero e agli altri nasce dalla testimonianza di chi comunica, non da forme autocentrate che usano la comunicazione per autocomunicarsi.
Così il Premio Emilio Rossi che viene assegnato ogni anno a tre giornalisti, simbolicamente esprime uno stile e un modo di fare giornalismo. Andrea Melodia, allievo di Emilio Rossi, ha sintetizzato la sua eredità attraverso quattro pilastri: un giornalismo di servizio, aperto, pluralista e libero.
In questo tempo il giornalismo vive un momento storico particolare: stretto tra i tagli dei finanziamenti pubblici che penalizzerà le tante voci nei territori, migliaia di giornalisti e comunicatori saranno compromesse da questa scelta. Il giornalismo ecclesiale inoltre è diviso tra chi concepisce il ruolo del giornalista come identitario, con un quid specifico fatto di temi propri e chi invece lo intende come “cattolico”, al servizio di tutti e di tutto ciò che è umano e contro tutto ciò che è disumano. I rischi e le opportunità si intrecciano in entrambi gli approcci: estremizzare la prima visione ci porta a separarci, con la seconda a dissolverci. È nella mediocritas la via da percorrere.
Premiando questi tre giornalisti vorremmo fare emergere tre caratteristiche del giornalismo:
La forza e la qualità della denuncia fatta sull’approfondimento (che ci insegnano giornalisti come Nello Scavo). C’è un passaggio a tutti noto nella dottrina sociale della Chiesa, nella sollecitudo rei socialis, che dice che la chiesa alza la voce quando la dignità delle persone viene lesa.
Le buone pratiche dei territori che silenziosamente ricuciono tensioni sociali e creano percorsi nuovi e di integrazione perché la forza di chiamarsi per nome vince le paure. Matteo Spicuglia è un maestro almeno per me su questo tema. Lo ricorda una citazione di Cassiano il Romano nel messaggio dello scorso anno del Papa: la mente dell’uomo può macinare grano o zizzania, la scelta è nelle nostre mani.
Il giornalismo come memoria della cronaca. Se per il giornalista con la notizia oggi, non possiamo far perdere la memoria di quello che è capitato ieri. Per questo il lavoro di Caterina Dall’Olio è importante per noi.
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Nel volume su Emilio Rossi edito dall’Ucsi ho scoperto che aveva anticipato la priorità del giornalismo di oggi: l’urgenza della coesione sociale che è la narrazione di fiducia e di cultura, di ricchezza economica e sociale, di inclusione e di sviluppo umano all’interno di un Paese. Questa sfida secondo Durkheim si basa su tre fondamenti antropologici: “l’interdipendenza tra i membri di una società”, “la lealtà condivisa” e “la solidarietà” tra i membri di una stessa comunità.
Per dirlo con una parola: il nostro giornalismo vincerà se trasformeremo le solitudini in relazioni, se forniremo notizie e dati per pensare e costruire la convivenza.
Per questo il Servizio pubblico è un bene da costituzionalizzare prima che il servizio diventi un privilegio e la dimensione del pubblico sia pilotato da pochi e potenti privati.
Come Ucsi stiamo investendo molto nella cultura del giornalismo: attraverso il nostro sito, la rivista Desk, la scuola di giornalismo di Assisi, il lavoro nelle regioni… e poi lo stiamo facendo con tanti compagni di viaggio: La Cei, l’Ufficio della comunicazione del Vaticano, Ordine, sindacato, luoghi come Il Sacro convento di Assisi, il Sermig e molti altri.
Valgono ancora per tutti le parole di Francesco di Sales: “Non è per la grandezza delle nostre azioni che noi piaceremo a Dio, ma per l’amore con cui le compiamo”.