Festeggiare i 50 anni del Collegio del Gesù ci permette di sostare e fare memoria su una tappa importante della nostra formazione. Erano gli anni tra il 2002 e il 2005, quando ho vissuto nella comunità del Gesù, il Rettore era il padre Josè Adolfo Gonzales, dal secondo anno il padre Francisco Lopez. Eravamo in molti, più di 60 gesuita, e quel luogo esprimeva in piccolo l’universalità della Compagnia. Si parlava un italiano internazionale che ho dovuto imparare anch’io per capire che l’analisi logica era più importante di quella grammaticale. Arrivavo da un magistero di lavoro e di studio, ero stato mandato nella redazione della rivista Aggiornamenti Sociali mentre facevo apostolato nel carcere di san Vittore a Milano e studiavo diritti umani all’Università di Padova. Il mio superiore di allora, un vero e grande maestro per me, il padre Bartolomeo Sorge, mi disse: “Vorrei che tu andassi al Gesù come è stato per me, non c’è esperienza più importante in Compagnia”. A distanza di tanti anni, sento di doverlo ringraziare, anche per me è stata un’esperienza importante sotto tre profili di crescita: spirituale, affettivo e culturale.
Mi sembrava di essere arrivato in un grande aeroporto in cui in quegli immensi corridoi si atterrava per poi ridecollare. Alcuni avevano camere grandi ma rumorose, altri invece abitavano in camere piccole e silenziose, io ero tra questi. Percepivo che se la Compagnia è un corpo, il Gesù era il suo cuore: le stanzette di Sant’Ignazio in cui celebravamo e facevamo la guida, la sua tomba e tanti altri angoli, ci davano identità e rinforzavano la nostra spiritualità. Si pregava insieme e lo studio era una forma di preghiera e di missione. Durante una messa avevo capito profondamente che la nostra missione non è una conquista, ma solamente la gratitudine per ciò che si aveva ricevuto dal Signore e dalla Compagnia.
Sono stati gli anni anche della gestione degli affetti, imparare a voler bene agli altri senza possederli e rispettarli nelle loro differenze. Ma anche ad accettarsi. Anche su questo punto avevo dovuto vivere un doppio salto mortale che mi aveva rimesso in discussione tutto: la cultura da cui provenivo, il mio modo di fare, la gestione dei miei affetti, il rapporto con i miei genitori, la forza terapeutica dell’amicizia tra noi. Nel nostro anno c’era rispetto e stima tra noi, lo sentivamo come un dono grande che iniziava dall’aiuto nello studio. E poi il grande momento dell’ordinazione diaconale che avevamo organizzato come se fosse una ordinazione episcopale. Ma il Gesù è anche questo. Ancora oggi ripetere nella mente il nome di quei compagni, oltre a rivederne il volto, fa bene al cuore: da Mirek a Georges, ha Hovsep a Vinai, da Rogel a Peter, Chala e Malulu e tanti altri.
Infine la dimensione culturale, che include gli studi alla Gregoriana ma non si limitava a quelli. Gli esami erano da dare, il metodo lo sentivo molto rigido, ho imparato molto, ma è rimasto quello che ci aveva detto un professore in una delle sue prime lezioni: “Le cose si dimenticano rimarranno le persone che incontri”. Sbagliavo a voler ottenere i voti più alti, sono però contento di aver aiutato anche nel poco i confratelli che invece avevano bisogno. Ricordo che avevamo organizzato un convegno sull’inculturazione degli studi, per andare oltre la teologia romana, anticipando i tempi.
Dal Gesù sono stato mandato a Madrid per la licenza, sono poi ritornato a Roma a La Civiltà Cattolica. Ho avuto la fortuna di celebrare per 8 anni nella chiesa del Gesù alla domenica sera e questo mi ha permesso di non dire “addio” al Gesù. Adesso scrivo di politica e accompagno giovani alle prime responsabilità sociali e politiche, sono consulente spirituale di un gruppo di circa 1.500 giornalisti e collaboro con la Conferenza episcopale italiana e alla Rai. Sono mondi tanto diversi dal Gesù, ma forse non li riuscirei ad abitare se non avessi vissuto quell’esperienza.