All’inizio di febbraio una notizia meravigliosa ha lasciato molti senza parole. E’ stata battuta dalle agenzie più o meno così: “Leucemia, Ospedale Bambino Gesù: la terapia genica guarisce un piccolo paziente. Manipolare geneticamente le cellule del sistema immunitario per renderle capaci di riconoscere e attaccare il tumore. È quello che hanno fatto i medici e i ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma con un bambino di 4 anni, affetto da leucemia linfoblastica. Ad un mese dall’infusione delle cellule riprogrammate nei laboratori del Bambino Gesù, il piccolo sta bene ed è stato dimesso: nel midollo non sono più presenti cellule leucemiche. «Una pietra miliare nel campo della medicina di precisione in ambito onco-ematologico – spiega il professor Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù -. Le terapie cellulari con cellule geneticamente modificate ci portano nel merito della medicina personalizzata, capace di rispondere con le sue tecniche alle caratteristiche biologiche specifiche dei singoli pazienti e di correggere i difetti molecolari alla base di alcune malattie. E’ la nuova strategia per debellare malattie per le quali per anni non siamo riusciti a ottenere risultati soddisfacenti».
In pochi però conoscono la storia dell’Ospedale del Papa che fa un bene immenso. Alla vigilia dei 150 anni di vita l’ospedale, da una piccola sede sulle rive del Tevere nella quale tutto partì, si sviluppa in quattro poli: la sede storica del Gianicolo e la nuova sede di San Paolo Fuori le Mura, a Roma; i centri di Palidoro e Santa Marinella, con 607 posti letto, 27.000 ricoveri ogni anno, 339 trapianti, 44.000 giornate di Day Hospital, 80.000 accessi al Pronto soccorso, oltre 1.700.000 prestazioni ambulatoriali.
Dal quartiere, al mondo
La prima sede dell’ospedale risale al 6 marzo 1872, un edificio di quattro piani in via delle Zoccolette. L’organizzazione sanitaria della struttura anticipa i tempi: prestazioni assistenziali gratuite, divisione degli ammalati in base alla patologia, una sala chirurgica, il primo ambulatorio pediatrico, un regolamento centrato sulla dignità dell’ammalato. Gli archivi registrano 91 ricoveri nel 1873, 143 l’anno dopo. Nel 1887 l’ospedale viene trasferito al Gianicolo, in uno degli angoli più suggestivi di Roma, grazie all’aiuto dell’amministrazione pubblica e di molti benefattori privati. È il dono originario che si rinnova nel tempo. La nuova sede permette circa 500 ricoveri l’anno e si distingue per la qualità della sua chirurgia.
All’inizio del Novecento i ricoveri sono circa 1.000 ed i bambini bisognosi arrivano da ogni parte del paese: nel 1908 il Bambino Gesù accoglie alcuni bambini sopravvissuti al maremoto di Messina, nel 1915 sono curati 428 bambini sopravvissuti al terremoto di Avezzano[1].
Un passo dopo l’altro, il Bambino Gesù cresce nonostante i venti contrari della storia. Lo documentano le fonti d’archivio: durante la prima guerra mondiale, si cura l’epidemia di meningite cerebro-spinale, l’epidemia del vaiolo nero; alla fine del 1918 vengono ricoverati 300 bambini ammalati di influenza spagnola. La mortalità infantile viene ridotta, il ruolo sociale dell’ospedale cresce fino ad essere riconosciuto dal Senato del Regno per aver formato nella cultura italiana una «coscienza pediatrica»[3].
Nel 1917 prende corpo un’altra scena del grande quadro che compone la storia dell’ospedale: la Regina Elena di Savoia affida in gestione a Maria Salviati la colonia marina «Jolanda di Savoia» a Santa Marinella che, solo tre anni dopo, nel 1920, verrà donata all’ospedale da Vittorio Emanuele III. Così, nella sede sul litorale tirreno a circa 60 chilometri da Roma nasce un centro di elioterapia, in cui negli anni Trenta sarà investito circa un milione di lire. La colonia marina Iolanda di Savoia non è stata donata all’Ospedale, ma alla famiglia Salviati, in particolare a Maria Salviati, figlia dei fondatori (Martinelli p.101-102), che ne ha mantenuto la proprietà personale fino alla donazione al Papa di tutta la struttura del Gianicolo. Gli atti di donazione sono due, quello della famiglia Salviati per la sede del Gianicolo e quello firmato solo da Maria Salviati per la proprietà di S. Marinella.
Il 24 gennaio 1924 la proprietà viene donata allo Stato della Città del Vaticano e inclusa nei Patti Lateranensi; la difficile mediazione tra la famiglia Salviati e l’amministrazione pubblica è portata avanti da Francesco Pacelli, fratello di Eugenio. La scelta divide anche alcuni importanti prelati, a motivo del peso della gestione di un’opera tanto grande. Papa Pio XI ne giustifica il fondamento: «L’assistenza ospitaliera dei fanciulli poveri si addice al Nostro ministero che anche in questo continua l’opera di Nostro Signore Gesù Cristo, il quale fece oggetto di sua speciale amorevolezza i bambini e si compiacque di averli presso di sé»[4].
Secondo il parere di alcuni storici, questo è il periodo che segna un “prima” e un “dopo” per la vita dell’ospedale: «Per il Bambin Gesù, dopo 55 anni, terminava l’avventurosa e travagliata epoca della beneficenza privata mentre ne iniziava un’altra (che tutti si auguravano più tranquilla e serena): l’epoca dell’istituzionalizzazione pubblica vaticana»[5].
Nel 1926, grazie a una loro importante donazione, i Cavalieri dell’Ordine di Malta permettono all’ospedale di crescere e di avere un nuovo reparto di medicina per i lattanti. Le attività non si arrestano neppure durante la seconda guerra mondiale, quando ebrei e rifugiati politici vengono accolti nell’ospedale e protetti. Una scelta appoggiata da Papa Pio XII, che nel 1952 fa approvare per l’ospedale il primo Statuto organico e il Regolamento.
Il primo Papa a varcare la soglia dell’ospedale è Giovanni XXIII nel Natale del 1958, a poco più di due mesi dalla sua elezione. Le immagini della visita fanno il giro del mondo, e quell’occasione straordinaria porta un bambino ricoverato a scambiare il Papa per Babbo Natale. Il Pontefice ritorna tra le corsie dell’ospedale nel Natale del 1962. Papa Paolo VI visita l’ospedale il 1° gennaio 1968 e nella sua omelia sottolinea il valore redentivo della sofferenza; dieci anni dopo, nel 1978, affida all’ospedale il complesso della Pontificia Opera di Assistenza a Palidoro, che aveva terminato le sue attività.
Fino agli anni Settanta i discorsi dei Papi all’ospedale sono centrati sul modello «paternalistico», chiamato anche genitoriale o sacerdotale, in cui il medico era chiamato a decidere sul «bene del paziente». Dagli anni Ottanta il rapporto medico-paziente cambia, si basa sull’«alleanza terapeutica», modello fondato sulla fiducia reciproca per tutelare la salute intesa come un bene. Così, l’«etica dei medici» lascia il passo all’«etica medica», in cui il medico accompagna il paziente e la famiglia nelle sue decisioni. Questo cambio di prospettiva è chiarito da Papa Giovanni Paolo II[8] quando, l’8 giugno 1982, sottolinea il valore e la centralità della ricerca scientifica.
I frutti del cambiamento appaiono tra gli anni Ottanta e Novanta, quando l’ospedale apre il servizio di genetica (1983), il laboratorio di bioingegneria (1984), il servizio di tomografia assiale computerizzata (1987), la sezione di terapia intensiva neonatale (1989), il centro informatico e di elaborazione dati (1990) e il centro di assistenza per bambini affetti dall’Aids (1992). Nel 1993 sono ristrutturati i reparti dell’ospedale e degli ambulatori, sia nella sede del Gianicolo sia in quella di Palidoro, e nasce il «Modulo interdisciplinare per le terapie avanzate» per trapianti di midollo a bambini immunodepressi.
Durante la visita del 30 settembre del 2005, Papa Benedetto XVI pone al centro della cura la sua umanizzazione: «Qui è vostra preoccupazione assicurare un trattamento eccellente non solo sotto il profilo sanitario, ma anche sotto l’aspetto umano»[11]. Il Pontefice chiede di «umanizzare la tecnologia» e «professionalizzare la cura» per rendere cattolica, vale a dire per tutti, la missione dell’ospedale.
Infine, Papa Francesco visita l’ospedale il 21 dicembre 2013 e lo riceve in udienza il 15 dicembre del 2016. Davanti a migliaia di partecipanti ricorda che «il modo» in cui si cura è già terapeutico: «Accompagnare un bimbo che soffre è molto difficile: ci sono tenerezza, carezze, vicinanza e pianto. Per questo le infermiere, gli infermieri, sono tanto importanti in ospedale: perché sono vicini alle sofferenze. Le capiscono e sanno come gestirle poiché sono i più vicini al malato. Hanno il fiuto della malattia e per questo li ringrazio tanto».
Il pontificato di Francesco ha sbilanciato l’ospedale a curare oltre i suoi muri: ne è frutto tangibile e paradigmatico l’ospedale di Bangui, che rappresenta l’impegno della Santa Sede intorno alla «diplomazia sanitaria»[13]. Recentemente, Papa Francesco ha manifestato il suo sostegno ai progetti di accoglienza dei bambini stranieri, donando al Bambino Gesù i disegni che gli giungono in dono dai bambini di ogni angolo del mondo, per il tramite della Civiltà Cattolica che li raccoglie e li conserva. Il desiderio è quello di farne un dono per altri, di proporli come segno dell’impegno di ciascuno per i bambini del mondo bisognosi di cure.
Tra le iniziative, una mostra di 100 disegni è stata inaugurata – martedì 19 dicembre 2017, presso la sede di Palidoro dell’ospedale «Bambino Gesù» – dal cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin. L’evento ha dato il via alla campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi, che si sviluppa prevalentemente sul web e sui social network. I disegni originali, certificati dalla Segreteria particolare di Sua Santità, sono consegnati a quanti hanno dimostrato attenzione e impegno nei confronti dei bambini stranieri bisognosi di cure, a partire dalle associazioni e dalle case famiglia che da tempo assistono l’ospedale nell’accoglienza dei pazienti e delle loro famiglie. La campagna di sensibilizzazione è promossa dall’ospedale insieme ai padri gesuiti de La Civiltà Cattolica, a cui papa Francesco ha affidato i disegni, chiedendo loro di immaginare un modo per utilizzarli per il bene di tutti.
Il «Bambino Gesù» e la sanità cattolica tra carisma e istituzione
La sanità cattolica può continuare a offrire lo specifico della propria vocazione nel tempo dei tagli delle risorse alla sanità e dell’aumento della povertà per ampie fasce della popolazione. Occorre farlo gestendo le opere (ospedali, cliniche, laboratori) nella fedeltà al carisma fondativo per rispondere a una domanda sempre più urgente: quali caratteristiche deve avere la sanità cattolica oggi? Per discernere occorre riconoscere le colpe ― quando le strutture non sono gestite con trasparenza e onestà ― e riconvertire la gestione delle strutture a criteri professionali e manageriali. Lo insegna anche V. Hugo, quando scrive: «l’avvenire è la porta, il passato ne è la chiave». Per Mariella Enoc, presidente dell’Ospedale Bambino Gesù, il presente che apre all’avvenire è l’eccellenza nella cura e nella ricerca, è fare quello che la sanità pubblica non fa[15], «ritornare a curare gli incurabili», allo stesso modo degli ospedali medioevali. Sul campo – sottolinea – c’è una varietà ampia di bisogni: «c’è tutta la fascia dell’assistenza domiciliare, quella delle malattie con gravi patologie, ci sono tantissime fasce di bisogno alle quali, alla fine, non risponde più né il pubblico né la sanità cattolica»[16]. La Presidente indica vie realiste e possibili: il lavoro in rete degli ospedali cattolici; la costituzione di fondazioni per aiutare le piccole realtà sanitarie e una nuova governance per ridare trasparenza all’azione amministrativa. L’eccellenza della ricerca cattolica – oltre a muoversi in confini etici precisi – non può che essere una ricerca comunitaria che si offre come dono per tutti.
La domanda di salute come domanda fragile
Vicinanza, sguardo e competenza scientifica danno significato alla semplicità dei gesti quotidiani di un ospedale pediatrico che deve guarire, curare, assistere la vita umana; non solo corpi né, tanto meno, organi malati, le sofferenze di bambini intesi come persone. Questa “trilogia” rimane una provocazione alla salute fondata su una nozione liquida, che oscilla tra lo «star bene» e il «ben-essere». Alleviare il dolore significa «perseguire tenacemente la guarigione, ma significa anche camminare con il bambino (e con coloro che lo amano)[22]». È nel tempo dilatato della malattia che «si vede quel che vale un uomo», diceva san Vincenzo de Paoli.
Lo ha scritto Dietrich Bonhoeffer: «Il senso morale di una società si misura da ciò che fa per i suoi bambini». Per il Bambino Gesù, quel senso morale si è fondato su un dono che ha generato altri doni. Il motto «Curare gli ammalati, servire gli infermi» custodisce questo dono come provocazione al mondo sanitario e politico.
Approfondimenti e Note dell’articolo le trovate in La Civiltà Cattolica