Mohamed Keita è giunto in Italia nel 2010, dopo un viaggio di tre anni attraverso il Mali, l’Algeria, il deserto libico e la prigione, e infine Malta. Aveva appena quattordici anni quando, orfano di guerra. Lascia da solo la sua terra d’origine, la Costa d’Avorio. La sua condizione di migrante e rifugiato politico, oltre a ispirare incondizionata solidarietà, è un’efficace chiave di lettura del suo lavoro fotografico.
Keita è un professionista: inizia la sua formazione nel centro diurno per minori CivicoZero di Roma dove è stato accolto dopo le condizioni difficili in cui viveva al suo arrivo nella capitale, e nonostante la sua giovane età ha partecipato a diverse esposizioni sia personali che collettive. La sensibilità artistica che traspare dalle fotografie di Mohamed Keita è inscindibile dalla biografia del suo autore.
Ma la sua cifra stilistica è indissolubilmente legata alla sua esperienza di vita. I soggetti dei suoi scatti sono spesso scene di emarginazione, oggetti personali ma soprattutto persone. Compagni di destino di Keita, che ha iniziato a fotografare proprio documentando, con una macchina fotografica usa e getta, la vita degli altri “invisibili” che come lui vivevano alla Stazione Termini.
Questa prospettiva fotografica privilegiata si estende tuttavia a una grande varietà di soggetti umani, dove lo sguardo personale dell’autore è presente in maniera più sottile e tuttavia non meno potente. Impossibile non riconoscerlo in ogni scatto che si concentra su scene di vita frugale, sul tema del viaggio, su scenari che evocano un’ideale continuità con il paese di origine. Inutile sottolineare quanto sia preziosa di questi tempi una sensibilità fotografica di questo tipo, che merita di essere osservata con interesse.
Ecco la sua testimonianza che puoi anche ascoltare qui dal min. 3: VIDEO
Come sappiamo, il mondo è un unico pianeta, ma ha tanti colori diversi, talvolta non conosciamo alcuni di questi colori, perché abbiamo fatto a pezzi il mondo.
Io mi sento di ringraziare i miei genitori e Dio, che mi hanno dato la possibilità di conoscere molti di questi colori. Anche questa è una fortuna, perché ci sono delle persone che non hanno mai conosciuto i propri genitori, e neppure Dio. Per questo mi sento di dire Grazie!
Ringrazio per il mio passato anche se doloroso, perché mi ha insegnato a guardare le cose che mi circondano. Oggi le guardo in modo diverso, e tutti i colori del mondo costituiscono per me una grande famiglia.
Da questa esperienza ho capito che per vivere con dignità non bisogna possedere delle cose ma accettare quello che siamo, è la mancanza di dignità la vera povertà.
Ci sono anche delle povertà più gravi, più buie, dalle quali è difficile uscire: l’ignoranza… e l’incapacità.
Noi giovani siamo chiamati a non perdere la dignità, è fondamentale per noi cercare di mantenerla, ad ogni costo.
Fino all’età di 10 anni non avrei mai pensato che un giorno sarei diventato un “immigrato” in un altro paese, ma purtroppo tutto questo fa parte del nostro cammino, della nostra vita.
Ad un certo punto sono riuscito a smettere di piangere, ma ho cercato sempre di non dimenticare il passato e guardando il presente ogni giorno sogno il futuro.
Oggi vivo in Italia e sono un fotografo che osserva la vita quotidiana, voglio trasmettere il contrasto dei luoghi e delle persone che ci abitano. Lascio a chi vede le mie foto la scelta di notare questo contrasto, di decidere qual è la parte della foto che vogliono vedere.
Prima di fotografare qualcuno mi capita di conoscere i miei soggetti, a volte avere una macchina fotografica aiuta a stabilire un contatto. Parlo con tante persone che hanno avuto una bella vita, ma anche con chi è caduto e non ha più avuto la forza di rialzarsi.
Mentre fotografo dimentico tutto quello che mi sta intorno e penso solo a quello che sto fotografando, e alle storie che imprimo in quelle immagini. Nella vita dobbiamo avere coraggio.
Grazie a chi mi hanno dato una mano fin qui, grazie a chi mi ha invitato, grazie infinite a tutti voi.