Luciano Sandrin, docente alla Pontificia Università Gregoriana e all’Istituto Camilianum, approfondisce il tema dell’eutanasia a livello pastorale, illuminando le domande di senso, nel sul volume Lo vide e non passò oltre. Temi di teologia pastorale Ecco come ci orienta a trattare il delicato tema dell’eutanasia.
La domanda inespressa di eutanasia ormai presente nella società italiana ci fa sentire abitati da una profonda solitudine. Cosa può dirci a partire dalla sua esperienza di studioso?
La domanda di eutanasia è più ampia del «detto» che la chiede. Esige un’attenta decodificazione, un vero e proprio «discernimento». Le motivazioni che spingono i malati a richiedere la morte sono varie. Per rispondere a una richiesta di morte assistita, è importante, in prima istanza, esplorare la richiesta per individuare i bisogni che le cure devono soddisfare. Analizzare i motivi di una richiesta eutanasica, fatta anche da una singola persona, può avere un’importanza più generale perché è l’occasione per portare all’attenzione il tipo di «sofferenza non-fisica» vissuta dalla persona, anche quando questa sofferenza viene espressa come dolore fisico. La domanda di eutanasia e di suicidio assistito sono una finestra su un insieme di preoccupazioni (e di paure) che i malati hanno sul morire, in modo particolare la paura di perdere la propria dignità in relazione alla perdita del proprio sé corporeo, delle relazioni significative e dell’identità sociale. Dobbiamo chiederci se, specialmente nelle situazioni di dolore, di sconforto e di solitudine, è la morte l’oggetto della domanda o il desiderio di non vivere più in quelle situazioni. Dolore (fisico) e sofferenza (psicologica e spirituale) sono inseparabili e necessitano nuove competenze terapeutiche e relazionali. È nella relazione che può nascere o ri-nascere, anche umanamente, la speranza nelle sue forme, anche parziali.
Quando Lei è stato mio professore mi colpiva il fatto che ciò che insegnava lo aveva anche vissuto nelle corsie degli ospedali tenendo la mano a tanti ammalati. Cosa può dirci sulla sofferenza di colui che muore?
La domanda di eutanasia va ascoltata e interpretata. Anche nel grido più disperato c’è una domanda di relazione e di speranza che va accolta. Ma questo non è facile perché nel rapporto con chi muore ci viene riflessa, come in uno specchio, la nostra morte. La tentazione può essere quella di allontanare lo specchio, di «occultare» in ambito sociale ma anche in ambito sanitario la morte e il morente, di difendersi dietro la tecnica impedendo qualsiasi coinvolgimento con il malato, di portare sempre più in là il momento della morte (la terapia portata all’eccesso) o di controllarne in qualche modo il momento (eutanasia). Il rifiuto della morte rende “in-sopportabile” (per tutti i partecipanti) la sofferenza del morire. C’è una sofferenza in colui che muore che va presa in seria considerazione. Ma la sofferenza “insopportabile” che dà vita alla domanda di eutanasia può essere anche quella di chi sta accanto a colui che muore.
Molte delle richieste di morte per eutanasia da parte dei pazienti sono richieste di un minimo di comunicazione prima del definitivo commiato. La domanda di eutanasia può essere interpretata come domanda di relazione, anche quando ne chiede l’interruzione, che è importante prendere in seria considerazione.
La domanda di eutanasia è più ampia del «detto» che la chiede. Il dolore che spinge colui che muore a richiederla ha un «implicito psicologico e spirituale» più ricco che va decodificato. «La domanda che sgorga dal cuore dell’uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, ci ricorda Giovanni Paolo II nell’Evangelium Vitae specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno» (n.67). Questa domanda di relazione chiede una risposta attenta e multiforme.
Secondo Lei, il dolore è solo qualcosa di fisico?
La domanda di eutanasia chiede, innanzitutto, una risposta che prenda sul serio il dolore che coinvolge l’interezza della persona. Il dolore non attiene solo alla sfera fisiologica, ma anche a quella psicologica, sociale e spirituale: anche quando interessa il corpo è sempre un’esperienza della persona che lo elabora e lo soffre. Sono varie oggi le possibilità per un suo trattamento e per una sua cura. Ma c’è una sofferenza, dentro al morire, che non può essere tolta, perché è la manifestazione del nostro Sé mortale, una sofferenza profonda che proviene dal convivere con la nostra mortalità, con la paura del nostro annientamento. Nessuno può toglierci questo dolore. L’autonomia deve essere pensata all’interno di una circolarità tra il bisogno di libertà dei singoli e l’imprescindibilità dei legami tra noi. Abbiamo bisogno di affetti e di legami (di legami affettivi) e solo questi, a un certo punto, ci tengono in vita, possono attenuare il dolore, aiutare a guarire o accompagnare alla morte in una condizione di relativa serenità.
Qui acquistano immenso valore le cure palliative prestate ai malati gravi: oltre ad alleviare il dolore di chi soffre, anche senza per questo poterlo guarire, esse sono un simbolo tangibile dell’essere-accanto. Dove le cure palliative, basate su un’attenzione relazionale alla persona nella sua interezza (e quindi anche ai suoi bisogni spirituali e religiosi), vengono attuate con competenza la domanda di eutanasia perde gran parte della sua forza, della spinta motivazionale da cui nasce.
Le domande sul morire vanno ascoltate o rigettate?
Le domande che nascono dalla sofferenza e dalla morte (e dalla sofferenza del morire) sono le domande vere che la comunità deve ascoltare. Sono soprattutto domande di relazione che aiuti a vivere la radicale solitudine del morire. È a partire da questa domanda che si può “ri-scoprire” anche la chiesa come comunità comunità samaritana che continua a prendersi cura dei suoi figli fino all’ultimo istante della loro vita ed è attenta a coloro che li assistono e li curano.
La compassione che siamo chiamati ad esprimere accanto a chi muore è fatta di ascolto ma soprattutto di azioni concrete attraverso le quali ci prendiamo cura della sua sofferenza. Nasciamo da una relazione d’amore e sono le relazioni che danno senso a tanti momenti fragili della nostra vita e ci «con-fortano» anche nel momento del morire.
Be! direi che rimane poco da dire, tranne il fatto che se la sofferenza del prossimo fosse anche un po’ nostra, probabilmente ci sarebbero meno parole e più ascolto. Ascolto fatto con e da tutto il nostro “essere” non suoni provenienti da una voce esterna a noi.
Sa che non ho proprio capito cosa mi scrive? Sembravo righe pronte a fare la morale? Lei di me sa per caso che non ascolto? La ringrazio
no assolutamente anzi. voleva essere un ulteriore aiuto al suo, visto il “tifo” di questi giorni sull argomento che dai media all ufficio sotto casa imperversa senza possibilita di poter davvero parlarne.
Ah scusi!