Il dibattito intorno alla morte di Fabiano Antoniani, in arte dj Fabo, è esploso in modo così prepotente che io non ne vorrei parlare. Per rispetto.
Vorrei invece fare qualche considerazione sui grandi temi intorno alla vita e alla morte che toccano il nostro tempo. Nel sito dell’Ucsi abbiamo sviluppato il rapporto del giornalismo davanti alla morte. Ma qui c’è di più. E’ noto a tutti. La medicina rigenerativa, quella basata sulla scoperta delle cellule staminali e sulle nuove tecniche di rianimazione, spinge a riformulare una delle domande radicali dell’esistenza: quando la vita passa la soglia della morte?
A questa domanda la medicina risponde allungando il processo del morire regolato e programmato dalla ricerca scientifica… fino al punto in cui la medicina chiede al paziente se vuole morire rifiutando poco a poco le macchine che lo tengono in vita. Ma questo è solamente un tentativo «moderno» per esorcizzare un’inquietudine che da sempre abita il cuore dell’uomo: rimuovere l’angoscia della morte intesa come naturale accadimento della vita, evitando di riconciliarsi con le ragioni del proprio limite.
Le tecniche di rianimazione sono in grado di mantenere vivi organi vitali come cuore, fegato, reni ecc. in questi ultimi venti anni hanno ampliato il tempo della vita, ridotto quello di morte e introdotto il concetto di «morte cerebrale».
Non sempre poi l’umanizzazione della medicina cresce con la tecnicizzazione della medicina stessa sempre di più concentrata sull’azione del «curare» (to cure) la malattia e sempre meno su quella del prendersi cura (to care) del mondo affettivo, relazionale, psicologico e spirituale del paziente. Insomma, l’invasività della tecnica non si preoccupa di prepara il paziente a consegnarsi alla morte.
La morte non è più considerata come «un momento», ma è concepita come un processo, a tal punto che è sempre più difficile individuarne l’attimo. Per ritornare ad affrontare, nel dibattito pubblico, il tema di «fine vita» senza ricadere nella tensione di due posizioni opposte, entrambe problematiche — tra i favorevoli all’eutanasia e quelli all’accanimento terapeutico — la riflessione deve anzitutto mettere al centro il significato di «vita umana» e di «morte umana», di «dignità della vita» e di «dignità della morte».
Lo abbiamo scritto in un editoriale della Civiltà Cattolica: “Sotto questa luce, eutanasia e accanimento terapeutico sono due facce della stessa medaglia: pretendono di controllare la morte attraverso la «cultura», pensando di ignorare la «natura» con le sue leggi. Invece la vita e la morte, non esistono in astratto e non sono astrazioni culturali; esiste invece l’uomo concreto che cresce e ama, progetta e spera, vive e muore. Del resto chi può essere così sicuro di decidersi per la fine della vita? All’uomo non è data la possibilità di sperimentare la morte in prima persona e poi di raccontarla, per-ché è sempre e solo «morte dell’altro». Accogliere il proprio «essere per la morte», invece, apre anche a un orizzonte di possibilità, che inizia con lasciare la propria traccia nell’altro e nella storia”.
Sul piano antropologico e spirituale rimane però aperta una domanda: quando si muore, chi muore? Morte e vita devono sempre essere definite mettendo al centro la dignità dell’essere umano entro una precisa visione antropologica. La vita non si riduce al solo significato biologico, alle reazioni biochimiche che si studiano in un laboratorio, ma anche al significato biografico, costituito dall’incontro con se stesso, con gli altri, con il mondo e, per il credente, con Dio.
Grazie al suo essere razionale e libero l’uomo è da sempre alla ricerca del senso di fine vita, si interroga sulle ragioni del dolore e della morte, cerca di esorcizzarne il ricordo, ma la sua memoria mortis, che lo distingue da tutti gli altri essere creati, lo spinge a ricercare un senso ultimo.
L’uomo di fede, di fronte al tema di fine vita si chiede fino a che punto il nuovo corso della ricerca scientifica — che rimane un valore e un progresso per l’intera umanità — non sfoci nel tecnicismo disumano. Come viene ribadito da più parti, se «tutto è permesso all’uso della scienza per l’uomo, non tutto è permesso all’uso dell’uomo per la scienza». La ricerca è chiamata a recuperare la sua componente umanistica, che tenga nel debito conto in un paziente la sua storia, la sua psicologia e la sua spiritualità.
Per esprimerci con le parole del Comitato nazionale di bioetica, va chiarito che «la disponibilità di strumenti diagnostici e terapeuti-ci sempre più efficienti, sicuri, maneggevoli, comporta il rischio di un abuso consistente nel rivolgere eccessiva ed esclusiva attenzione alla valutazione degli effetti della tecnica adottata, compromettendo il delicato rapporto umano con il paziente. Tale abuso viene denominato “tecnicismo”» (14 luglio 1995). La tecnologia deve dunque rimanere al servizio sia della scienza sia del paziente, altrimenti una tecnologia alleata solamente della scienza disumanizzerebbe la medicina.
Per garantire dunque un nuovo corso di umanesimo della tecnologia medica, un autorevole gruppo di medici europei ha elaborato alcuni princìpi per garantire il rispetto della dignità dell’ammalato terminale:
1) considerarlo persona fino alla morte;
2) informarlo, se ne è in grado, sulle sue condizioni;
3) dare sempre risposte veritiere senza ingannarlo;
4) fare in modo che partecipi alle decisioni che lo riguardano rispettandone la sua volontà;
5) applicare i trattamenti che lo sollevino dal dolore e dalla sofferenza;
6) garantire cure e assistenza continue nell’ambiente desiderato;
7) non imporre trattamenti che prolunghino l’attesa della morte;
8) garantire aiuto psicologico e conforto spirituale;
9) permettere che i familiari gli rimangano vicino;
10) non lasciarlo morire nell’isolamento e nella solitudine (Congresso di Cure Palliative, Palermo 2-5 aprile 2001).
Lo sforzo fatto afferma che la medicina, oltre a tenere in debito conto la dignità del vivere, include sia la dignità del morire come suo presupposto antropologico sia il significato più ampio di salute che dal latino salus richiama la salvezza.
Il Parlamento italiano ha da tempo è bloccato sulla materia del fine vita. In molti si sono chiesti se questa decisione fosse opportuna, ma l’alternativa sarebbe stata quella di lasciare la materia in mano alla magistratura.
Nella scelta del legislatore presentate nelle passate legislature si stabilivano almeno cinque grandi princìpi. Anzitutto la «tutela della vita e della salute» come valori, è infatti concepita dal legislatore come «bene inviolabile». Sono riconosciuti come prassi fondamentali l’alleanza medi-copaziente e il consenso informato.
Il cuore della scelta del legislatore regolava la «Dichiarazione anticipata di trattamento» (Dat): il paziente, attraverso un documento scritto, firmato e inserito nella sua cartella clinica, può esprimere i propri orientamenti e informazioni utili al medico sull’attivazione dei trattamenti terapeutici e la rinuncia ad essi se li considera di carattere sproporzionato o sperimentale. Con una precisazione però. L’alimentazione e l’idratazione rimangono escluse dalle Dat e vanno mantenute fino al termine della vita, tranne il caso in cui non siano più efficaci nel fornire i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali. Nel disegno di legge una speciale attenzione infine viene data ai pazienti in stato vegetativo, a cui è riconosciuto un «livello essenziale di assistenza garantito a tutti».
E’ un peccato che il Parlamento non metta mano alla materia, sarebbe un argine alla deriva eutanasica e al suicidio assistito. Nel momento in cui lo farà deve però chiarire due importanti passaggi. Le Dat entrano in vigore nel momento in cui si accerta l’assenza di attività cerebrale integrativa corticosottocorticale che viene definita da esami clinici oggettivi. Ma la definizione non è chiara nemmeno nel campo medico che avrebbe bisogno di un regolamento attuativo che definisca meglio la volontà del legislatore.
Inoltre il disegno di legge che rischia di svilire il principio di autonomia del paziente — riconosciuto in tutte le principali legislazioni occidentali — affida al medico un’ampia discrezionalità di valutare «in scienza e coscienza» i singoli casi. Questa scelta presuppone una preparazione non solamente tecnica ma anche umana dei medici in campo mora-le che non è per nulla scontata. In ogni caso perché le Dat, che esprimono orientamenti e non sono un testamento vincolante, pos-sano diventare cultura diffusa e praticabile, è necessaria un’opzione sociale basata su una forte cultura della e per la vita.
Morire con dignità significa per la persona malata nella fase terminale della malattia il diritto ad una assistenza rispettosa che risponda ai bisogni assistenziali della sua dimensione biofisica, ma anche a quelli delle sue dimensioni biografiche, come quelle psicologiche e spirituali. «Il momento della morte sfugge alla scienza. Il medico può constatare – ma constatare post eventum – la morte attraverso dei parametri indiretti, anche quando gli strumenti sono dotati di estrema precisione e anche quando questi vanno a rilevare la cessazione del battito cardiaco o l’assenza di onde elettroencefalografiche o l’arresto del flusso cerebrale» (Petrini).
«Per guarigione non si deve intendere solo il recupero fisico, ma quando questo non è più possibile, per guarigione si deve intendere anche la pacificazione psicologica, la forza interiore, il coraggio, la forza morale e spirituale, la capacità di non andare alla deriva, anche se il corpo si sgretola. Anche per il malato nella fase terminale della malattia, allora, si può parlare, almeno in senso lato, di guarigione. Sarà “guarito” se riuscirà ad affrontare con coraggio e con dignità l’ultimo atto della sua vita terrena. Lo potrà essere, se l’assistenza, nel senso più ampio della parola, lo avrà curato nel suo morire» (Anzani).