Caro Paolo,
mi scrivi un lungo post per far partecipare i nostri amici su questo temone che riguarda la generatività: “dopo una breve conversazione con un’amica che si è conclusa con “spero che non entri più nessuna [in monastero da noi] e ci estinguiamo senza infamia…sono solo guai…”, non riesco a smettere di interrogarmi… Anche perché frasi di questo tono le sento da tanti miei confratelli, altri religiosi e da un certo numero di sacerdoti. Più volte ci siamo detti e chiesti il senso della crisi delle istituzioni familiari, del perché non si fanno più figli e di che cosa questo vuol dire. Ora questa frase mi dice che forse dovremmo ampliare l’orizzonte della nostra analisi…
Oggi, dopo l’emancipazione femminile, l’ingresso della donna nel mondo del lavoro – seppur con tutte le difficoltà e le resistenze di cui a lungo abbiamo parlato-, dopo la demolizione della famiglia patriarcale e delle strutture familiari basate sul dovere, dopo che si dice che ci si sposa per amore e che tanti trovano la loro anima gemella, si assite alla diffusione sempre maggiore di single o comunque di uomini o donne e/o coppie che scelgono deliberatamente di non avere figli (“childfree”). Ci siamo detti, nelle nostre appassionate discussioni, che, volendo guardare al fenomeno in tutto onestà, questo non significa che siamo di fronte a persone frustrate e non realizzate o “non complete”, come verrebbe da pensare seguendo una visione culturale tradizionale. Se è vero, come diceva Erickson, che la generatività è la capacità propria della persona adulta di uscire da una concezione narcisistica e individualistica tesa a concentrare le energie mentali e le preoccupazioni su di sé, per potersi dedicare e prendere cura dell’altro. Dobbiamo dire che è altrettanto vero che se andiamo al di là del semplice concetto di genitorialità, inteso nella sua accezione più rigida e letterale del termine, una donna, come del resto un uomo, può investire risorse, energie e dedizione, oltre che passione ed amore, in attività, progetti, missioni, persone come un genitore può fare nei confronti del proprio figlio.
Ora però frasi come questa mi sembra che debbano spingerci ad analisi più complesse. Qui non siamo solo davanti a scelte di generatività diverse: la generatività come genitorialità o la generatività che si incarna in percorsi di vita fatti di dedizione e passione generativa (un altro nome dell’amore se vuoi…) come per esempio il seguire il Signore nella via della consacrazione. Mi sembra che ci sia una fase di a-generatività che non sia neanche riconducibile al narcisismo di cui parlava Erickson. Questa investe in pieno la nostra generazione, tanto i single, quanto gli sposati e i religiosi o i sacerdoti. Insomma una crisi che investe ogni condizione della vita. I nostri contemporanei nel vivere le loro vite, correndo la corsa, per parafrasare San Paolo, non stanno dicendo che non vale la pena correre, non è che si fermano (non abbandonano la loro vita) semplicemente dicono… che non vale la pena passare la staffetta a nessuno… è come se la meta, per rimanere nelle parole di Paolo, non fosse non solo non degna ma proprio eterea vana e confusa. Essere generativi, cioè vivere fino in fondo nell’amore e con amore, la nostra vita, significa relazionarsi con altri, significa dare ragione delle fatiche, delle scelte, delle direzioni e delle mete che abbiamo davanti a noi e questo semplicemente “sono solo guai”.
Mi chiedo, e ti chiedo, cosa vuol dire? Siamo di fronte forse a una nuova declinazione sociale della post-verità? Parafrasando Angelini ti direi che quello che conviene all’uomo, il bene, non si decide in anticipo, sulla base di obiettivi astrattamente pensati e giudicati come degni d’essere perseguiti. Così come, più radicalmente, non si giudica in anticipo se convenga vivere, per decidere poi di conseguenza di venire al mondo. Al mondo ci si trova senza averlo scelto. E tuttavia non ci si rimane, o meglio, non ci si vive davvero a meno di sceglierlo: la vita stessa deve suscitare alla nostra coscienza evidenze tali da persuaderla che appunto conviene vivere, o detto altrimenti, che la vita è buona e si può liberamente scegliere di accettarne l’impegno. Siamo di fronte a una prima e fondamentale radice della nostra agenratività generazionale. Siamo con tanta frequenza convinti che sia meglio morire che far vivere, che sia meglio “estinguere la vita” piuttosto che generarla, perché in realtà non abbiamo ancora deciso se convenga vivere, e per che cosa convenga vivere!
E allora la questione si fa radicale! Quali fatti possono dimostrarci il contrario se, appunto, i fatti non contano più per dire cosa sia la verità? Come ridare speranza alla nostra generazione? Come strapparci da un virtualismo irreale che anticipa la morte e l’estinzione per tuffarci in un realismo denso di difficoltà e di contraddizioni ma tuttavia pieno di vita e da gustare o, per essere ossimorici, bello da morire? Francesco che cosa fare? Come capire? Come far capire? Come dire una verità che sia fondata nella realtà se la realtà è, agli occhi dei nostri contemporanei, la prima falsità?
Generare nella sterilità
Ecco come ti rispondo (mi raccomando senza pretendere si esaurire il tema).
La prima cosa che possiamo fare è immergerci nella “cultura della sterilità”. L’Europa è anziana e a volte stanca. Entro il 2050 si calcola che 40 milioni di italiani decederanno e ne nasceranno 28 milioni. La respiriamo e tocca alla radice anche chi la vuole contrastare. Nei social cerchiamo l’identico e quasi mai il reciproco che ci provoca nella parte che ci manca. Nella vita siamo senza più influenzati e ipnotizzati dal medium e non dalla relazione face to face.
Non ci sono ricette, ma un profondo ascolto della realtà è il primo passo da fare.
Un secondo passaggio possibile è quello di riflettere sul termine “adultità” è stato coniato recentemente e rimanda alle caratteristiche e alle condizioni che definiscono l’esperienza adulta. Il suo significato tocca tutti gli ambiti del vivere, da quello spirituale e psicologico fino a quello professionale. Proviamo a sostare su questo ultimo aspetto, l’ambito professionale, per chiederci: chi è per me un adulto? L’adultità (inclusa quella professionale) ha molto a che vedere con la paternità, la capacità di generale figli e processi. Anche se oggi la funzione paterna è spesso in crisi, egli ha tre compiti insostituibili nell’educazione del figlio: deve aiutarlo a liberarsi dalla tendenza narcisistica e dalla stretta relazione con la madre, a entrare con coraggio nella realtà spesso ostile e a maturare nell’ambito della pratica religiosa.
In una sua recente intervista De Rita ha dichiarato che «abbiamo paura del futuro, ma gli errori sono del passato. Non sarà una legge a salvarci». E ha aggiunto: «I genitori hanno tante colpe: danno un B&B ai ragazzi piuttosto che farli studiare». La scuola dovrebbe essere più collegata all’offerta di lavoro, altrimenti la formazione diventa un consumo formativo e non un investimento per il mondo del lavoro. È questa una tra le tante eredità che Giuseppe De Rita lascia al Paese: scommettere sulla formazione e dare spazio nella società anche a quei fiori che sbocciano in mezzo all’asfalto. A lui, che ha avuto 8 figli e 14 nipoti, è chiaro un principio: «Non possiamo dire ai nostri figli o nipoti quello che devono fare, però è importante siano consapevoli e dunque responsabili delle loro scelte» . E aggiunge: «dalla vocazione [il sentirsi attirati da qualcosa o qualcuno] deve discendere la responsabilità».
Educare al sacrificio, il tenore di vita decrescerà! E saranno dolori. Il cambiamento delle istituzioni in cui il Paese si è sempre riconosciuto — come la scuola, il fisco, le poste, gli uffici pubblici, i partiti, i sindacati, le banche ecc. — dalla distanza tra gli sterili e i generativi, significa per De Rita riscoprire una nuova vocazione sociale basata sulla capacità di generare processi positivi.
Mettere a disposizione beni. Rimettere in discussione ciò che non produce più frutto, ascoltare dove la forza della vita si è incanalata per dare frutto.
Zygmunt Bauman ha insegnato come diffidare dalle formule di felicità che premiano «le scorciatoie, i progetti che possono essere portati a termine in breve tempo, gli obiettivi raggiunti subito», e ha richiamato i due modelli di felicità proposti dalla filosofia: le narrazioni del mito del superuomo e quella dell’uomo debole e umiliato. Ovvero scegliere, per essere felici, di vivere da potenti escludendo la propria debolezza, secondo il pensiero di Friedrich Nietzsche, oppure ispirarsi a vivere «la felicità dell’essere per», come insegnava uno dei suoi modelli di riferimento, Emmanuel Lévinas. Il grado della felicità dipende da una scelta, da quanto il soggetto riesce a essere per gli altri in quanto «“essere” ed “essere per gli altri” sono in pratica sinonimi».
Anche per noi che non abbiamo più molti figli nelle nostre comunità o per laici che scelgono di non averne o non possono per essere generativi è necessario fare un salto: ogni madre e padre biologico diventa madre e padre nella propria pienezza solo se sceglie di diventarlo anche culturalmente. Per generare figli e figli spirituali.
A questo non possiamo rinunciare.
Buona sera, ringrazio per l’articolo che ho letto d’un fiato , con passione. Vorrei sottolineare che il “salto” suggerito nella finale mi lascia una perplessità. Ogni padre e madre biologici sono generativi, vivono la loro adultità come figli del loro tempo. È mettere a fuoco i fondamenti culturali che è difficile, più ancora la modalità : come essere padre e madre credibile oggi, agli occhi dei propri stessi figli , in una società dello scarto , quando hai scelto di essere debole e umiliato- per gli altri- cioè prendendo l’ultimo posto? Perché si è ultimi se si hanno 8 figli. Mi consola che anche De Rosa ne avesse otto! Non credo si debba scollare la maternità/ paternità tra aspetto biologico e culturale: sono un tutt’uno. Forse nei monasteri e negli ordini religiosi entreranno vedove/ i con figli poiché la vita è sempre più lunga . Ciò permetterebbe alla Chiesa tutta di penetrare la profondità di questo mistero. Che è poi il mistero del Padre affidabile. L’esperienza di questo amore ci rende adulti, capaci di assumerci responsabilità, non secondo la logica del mondo, secondo la logica di Gesù che è biblica. Cosa è il bene per il figlio? Vivere! Non la qualità della vita ma una vita degna . Con cordialità, Paola Cesca