Giuseppe De Rita e il suo ultimo Rapporto Censis

Giuseppe De Rita esce di scena dopo aver interpretato il Paese per mezzo secolo. Consegna alla storia un mosaico composto da 50 tasselli, letti con l’intelligenza dell’uomo di cultura e la speranza del credente. Studiando il suo ultimo Rapporto Censis ho ripensato alle parole del filosofo danese Søren Kierkegaard, quando scriveva che la crisi di una civiltà può essere paragonata a una nave in cui chi comanda è il cuoco di bordo, e le parole che questi trasmette dal megafono del comandante non riguardano più la rotta ma il menù del giorno. È l’immagine di un Paese che continua ad avere radici solide e, ciononostante, i suoi rami non stanno producendo frutti di futuro. Si preferisce ascoltare il cuoco per sopravvivere al quotidiano, invece di sforzarsi insieme a ritrovare la rotta che la figura del capitano rappresenta. E questa dinamica sociale genera un’insicurezza diffusa. E De Rita in questi anni ci ha aiutato a trovare 1000 immagini così.

Come rigenerare il futuro?

Sfogliando le pagine di un Paese che si racconta si riscopre, come scrive Salman Rushdie, che «le nostre vite ci insegnano chi siamo». Dall’autocomprensione che hanno di se stessi, gli italiani provano a ripartire. Sempre. Quando hanno un lavoro e una famiglia, sanno comunque che bisogna essere in ricerca di altro, perché il desiderio di una vita realizzata spinge ad alzarsi la mattina e ad andare avanti. Quando il lavoro non lo hanno, sono disposti a rimettersi in gioco e a sperimentare vie nuove. Certo, in questi ultimi anni gli italiani generano cambiamenti (antropologici) e ne sono vittime, nella misura in cui non riescono a metabolizzarli a causa della loro rapidità. La società italiana è divisa tra chi si ribella ed entra in crisi per la distruzione delle certezze (morali, economiche, culturali) del passato e chi invece riesce a trasformare il cambiamento in una opportunità. Perché se è vero, come è stato scritto, che «per i nostri nonni era facile definirsi — bianchi, neri, maschi, femmine, cattolici, atei, lavoratori, madri, mogli, ricchi, poveri — per noi, ora, questa sembra essere la sfida più ardua. Siamo madri e padri, ma sempre figli. […] Siamo donne che hanno raggiunto la “parità” legale ma sanno che quella sociale è ancora lontana, e uomini che si interrogano su cosa voglia dire virilità e si ritrovano a dover inventare modelli nuovi e personalissimi di paternità» . Sta cambiando anche il legame affettivo con il territorio, che rendeva l’italiano fiero e radicato nella propria comunità. Si appartiene a una città, ma allo stesso tempo si hanno altri luoghi e case in cui andare e ritornare.

Il Rapporto Censis scatta due istantanee per archiviare l’anno sociale 2016: il calo demografico e il risparmio non investito. Leggi l’articolo pubblica su La Civiltà Cattolica

Grazie a Giuseppe De Rita

Con il 50° Rapporto Censis, Giuseppe De Rita ha deciso di uscire di scena in punta di piedi. Dopo aver interpretato il Paese per mezzo secolo, consegna alla storia un mosaico composto da 50 tasselli, letti con l’intelligenza dell’uomo di cultura e la fede del credente. Ha il merito di aver fatto fenomenologia del sociale e aver aiutato la autocoscienza collettiva a riconoscersi popolo. Fra i più coerenti interpreti di una visione antropologica che ha saputo ricomporre l’evoluzione dei diritti civili, politici e sociali, il pluralismo e l’organizzazione dei poteri, la democrazia è da lui intesa come bene fragile da custodire, mentre la società è il luogo della ricomposizione degli interessi. Basterebbe, per averne prova, scorrere i Rapporti che Civiltà Cattolica ha sempre ripreso come un appuntamento atteso. De Rita si è voluto occupare del “resto”, di ciò che a tutti sembrava marginale: attento al sociale, alle vecchie e nuove povertà, difensore delle classi più deboli, fedele ai principi dell’etica cristiana, ha sempre scommesso sulle mani operose della società civile. L’arte della mediazione che lo ha contraddistinto gli ha permesso di svolgere nella società italiana più una funzione di lievito, che di massa. In una sua recente intervista ha dichiarato che «abbiamo paura del futuro, ma gli errori sono del passato. Non sarà una legge a salvarci». E ha aggiunto: «I genitori hanno tante colpe: danno un B&B ai ragazzi piuttosto che farli studiare». La scuola dovrebbe essere più collegata all’offerta di lavoro, altrimenti la formazione diventa un consumo formativo e non un investimento per il mondo del lavoro. È questa una tra le tante eredità che Giuseppe De Rita lascia al Paese: scommettere sulla formazione e dare spazio nella società anche a quei fiori che sbocciano in mezzo all’asfalto. A lui, che ha avuto 8 figli e 14 nipoti, è chiaro un principio: «Non possiamo dire ai nostri figli o nipoti quello che devono fare, però è importante siano consapevoli e dunque responsabili delle loro scelte» . E aggiunge: «dalla vocazione [il sentirsi attirati da qualcosa o qualcuno] deve discendere la responsabilità».
Uscire dalla crisi delle istituzioni in cui il Paese si è sempre riconosciuto — come la scuola, il fisco, le poste, gli uffici pubblici, i partiti, i sindacati, le banche ecc. — dalla distanza tra élite e popolo, significa per De Rita riscoprire una nuova vocazione sociale basata sulla capacità di intermediazione.

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