Quale sfida culturale può promuovere la Rai per il Paese Italia oltre l’offerta televisiva? Me lo sono chiesto in uno studio pubblicato su La Civiltà Cattolica di cui fa seguito un capitoletto.
“Il confronto con il proprio pubblico passa oggi attraverso nuove forme di racconto del Paese, nuove modalità di coinvolgimento e attraverso l’individuazione di nuovi stilemi culturali che vanno oltre i generi e la narrativa tradizionale (tweeting, metadata, app, post ecc.).
Se, da una parte, le trasformazioni che hanno interessato negli ultimi anni le tecnologie e i mercati della comunicazione hanno modificato i comportamenti e le abitudini della società italiana, dall’altra, le istanze sociali poste alla base dei valori fondanti del servizio pubblico rimangono immutate. Si pensi, ad esempio, a come la democrazia si fondi (anche) sulla domanda di accesso universale ai contenuti, sulla loro qualità e verità, sulla domanda di partecipazione, sulla richiesta di una memoria condivisa, sull’esigenza di un’informazione di prossimità nei territori. Si tratta di istanze che continuano ad avere molto rilievo, nonostante la rete cerchi di semplificare, perché ogni tipo di dato appare facilmente disponibile e perché l’interattività elimina le barriere tra utenti, editori e produttori.
Per la dirigenza della Rai, l’orizzonte e gli scenari del servizio pubblico si inscrivono in una «fedeltà creativa» ai fondamenti del servizio pubblico: rimanere fedeli ai suoi fondamenti, essere creativi nella sua applicazione. Il ruolo politico e culturale della Rai è quello di custodire la memoria comune per accompagnare le giovani generazioni. Possiamo chiederci: il Paese si riconosce nella memoria costruita e custodita dalla Rai nell’ultimo secolo? Che cosa significa, per un cittadino, partecipare a questa memoria comune?
Da parte della Rai, il rapporto di fiducia con i cittadini presuppone questa scelta: restituire e far condividere i contenuti del patrimonio dei suoi archivi, che contengono qualcosa come tre milioni di ore di trasmissione. Da parte loro, i cittadini verso la Rai sono chiamati alla responsabilità di collaborare a progetti e ad interventi mirati, perché la Rai è di tutti.
Il rapido cambiamento antropologico che porta a vivere il tempo come un eterno presente e lo spazio come una navigazione e non più come un cammino fatto di regole certe, richiede di saper abitare l’era dell’interconnessione e della cross-canalità. Da azienda editoriale, la Rai è chiamata a diventare un’azienda tecnologica. Non è un salto nel buio, perché nel nuovo ecosistema la tecnologia non è la «tecnica», ma il nuovo prodotto culturale[1]. Nessun algoritmo sarà in grado di produrre bene comune e governare processi pubblici; la dimensione etica e antropologica è restituita a chi ha la responsabilità di governare tali processi. Per questo è urgente governare (umanamente) la tecnologia, per far sì che sviluppi le relazioni e dia senso alla crescita di una comunità civile. Muovendo dalla (passata) cultura della trasmissione verso quella (nuova) del dialogo, la Rai si troverà ad essere una «piattaforma» per il Paese, se passerà dalla logica del possesso alla logica dell’accesso ai contenuti, e se renderà trasparente la gestione dei suoi dati: gli ascolti, gli stipendi, le spese del personale, i costi di produzione, la gestione dei piani di bilancio ecc.
Infine, non va sottovalutata la qualità della formazione interna dei quasi 13.000 dipendenti (i giornalisti sono 1.650), dai quali dipenderà l’innovazione dell’azienda.
[1]. L’ufficio della comunicazione e delle relazioni esterne della Rai, diretto da Giovanni Parapini, sta accompagnando questo nuovo corso attraverso l’elaborazione di alcune proposte concrete: permettere ai cittadini l’accesso ai contenuti della Rai e il loro utilizzo, riorganizzare e mettere a disposizione i dati della Rai, narrare la Rai attraverso i suoi archivi per comunicare i valori del servizio pubblico.