E’ in uscita sull’ultimo numero de La Civiltà Cattolica una mia analisi sul voto alle amministrative 2016. Ecco il sommario e due punti da approfondire.
In sintesi…
Il 5 giugno scorso sono stati chiamati alle urne 13 milioni di elettori per rinnovare le amministrazioni di 1.342 Comuni italiani. L’analisi del voto fa emergere tre dati politici: l’astensione «atipica», la tripartizione politica del sistema italiano e l’ondata culturale europea, che evidenzia una crisi dei partiti tradizionali e l’emergere di movimenti alternativi al sistema. Dai ballottaggi del 19 giugno esce sconfitto il Pd, che però rimane il primo partito, vincente in 45 Comuni, mentre il centro-destra amministrerà 34 città. Il M5S vince 19 ballottaggi su 20, in particolare a Roma e a Torino. Il modello bipolare di competizione a Milano accredita la città a essere un esempio di metropoli europea.
Un voto fluido, liquido e non più territoriale
L’ondata di disaffezione alla politica ha determinato un arresto della partecipazione: quattro cittadini su dieci hanno scelto di non andare a votare al primo turno. Il «partito ombra» degli astensionisti si è rivelato forte nelle grandi città italiane e al Nord e debole nei centri medio piccoli del Sud. Anche il risultato positivo del M5S non è stato sufficiente per convincere gli astensionisti. Di questi, il 29% non si è sentito rappresentato dall’offerta politica; il resto, invece, a causa delle motivazioni che ha espresso, sembra difficilmente recuperabile .
L’astensione è ulteriormente cresciuta per il voto dei ballottaggi, in cui ha votato il 50,54% degli elettori, oltre 9 punti percentuali in meno rispetto al primo turno (59,94%). Un elettore su due ha preferito non recarsi al seggio; a Napoli ha votato il 35,98% contro il 57,22% del 5 giugno. Davanti a dati di questa portata nascono almeno un paio di dubbi: ci si chiede se sia corretto e opportuno protestare senza voler partecipare al voto; ma anche come sia stato possibile che partiti tradizionali, nuovi movimenti e le numerose liste civiche non siano riusciti a coinvolgere una parte importante dell’elettorato.
Dalle elezioni emerge un «elettorato fluido», senza radici territoriali, che ha perso «i suoi legami con la storia, la società, le identità che gli garantivano senso e continuità […]. Zone rosse, bianche, verdi, azzurre: tutte scolorite» . Oltre un terzo delle amministrazioni in cui si è votato ha cambiato colore. Anche la politica dei territori sta perdendo il carattere di vicinanza: un elettore su quattro, infatti, ha deciso all’ultimo momento, il giorno stesso o durante l’ultima settimana, al punto che la campagna elettorale è stata decisiva per circa il 40% degli elettori.
L’incertezza del voto è espressa anche da un altro dato: più di un elettore su quattro ha deciso di cambiare candidato durante la campagna elettorale, il 10% è rimasto indeciso fino alla fine e il 16% è rimasto indeciso tra due candidati. Il voto dei giovani è stato fluido e imprevedibile: il 52% di loro ha deciso di votare nell’ultimo mese; invece gli elettori al di sopra dei 55 anni avevano scelto il loro candidato ancora prima dell’inizio della campagna elettorale. Una ricerca sull’analisi del voto ritiene che un elettore su cinque abbia espresso un «voto emotivo», fondato sulla percezione a pelle della candidatura senza tenere in conto la personalità del candidato, il partito di appartenenza, il programma e le proposte concrete.
Un tenue raggio di sole: il modello Milano
Il dato più promettente è stato la sfida di Milano, in cui si è assistito a un confronto bipolare, basato sulla qualità dei programmi e sulla selezione di una classe dirigente di qualità. Milano è l’esempio di come le elezioni si vincano con programmi di governo che persuadono l’elettorato moderato. Un esperimento che accredita Milano a essere una città europea e un modello possibile di democrazia europea con due poli alternativi e antagonisti, in cui uno ha obbligato l’altro alla qualità della propria proposta.
Se questa è la tesi, l’antitesi rimane Roma in cui la Capitale è avvolta in una crisi drammatica e i problemi urgenti da risolvere sono le buche nelle strade, la raccolta dell’immondizie, il traffico che paralizza la vita della città.
Governare le città è un mestiere duro. Il voto liquido che ha prevalso senza appartenenza politica e progettualità sarà pronto a cambiare presto opinione, se quello che è stato promesso non sarà mantenuto. Amministrare non significa solamente risolvere bene i problemi aperti, come il traffico, la sicurezza, i servizi sociali: occorre avere un’idea politica di sviluppo di città.
Soprattutto i sindaci delle città più importanti saranno chiamati a risolvere i loro problemi, facendo diventare la città che amministrano sempre più europea e integrata, per garantire crescita economica e una corretta gestione delle aree dell’edilizia, sanità, traffico. In campagna elettorale si è discusso troppo poco della criminalità organizzata, della corruzione e dell’eccessiva burocratizzazione che condizionano la vita sociale di molte città. È per questo che il buon governo della città si costruisce al di là delle appartenenze politiche e attraverso la responsabilità dei cittadini.
Per questo, un ceto politico all’altezza dei propri compiti dovrebbe con urgenza chiedersi cosa significa formare la classe dirigente di oggi e di domani. È a questo proposito che risuona il monito di Romano Prodi: «Cambiare politiche, non solo politici».