Le vittime dei reati sono le grandi assenti dell’Ordinamento. Anche quando vengono risarcite dallo Stato il loro dolore non cessa e si sedimenta nella memoria della società. Esistono però gesti compiuti dalle vittime o dalle loro famiglie raccontate nell’articolo LE VITTIME DEI REATI E IL LORO DOLORE pubblicato su La Civiltà Cattolica che stanno fecondando una nuova idea di giustizia in cui la visione riparativa integra quella retributiva.
La riparazione si fonda su una domanda: cosa può essere fatto per riparare il danno? e richiede, come primo passo, il coraggio della vittime a incontrare il reo. Si tratta di cammini faticosi e lunghi che spesso portano i colpevoli rivedere il male compiuto. È però necessario che la società, prima dello Stato, scelga questo modello senza politicizzarlo. Lavorare al recupero per contrastare la recidiva che è del 69% è porre al centro dell’Ordinamento la prevenzione generale.
***
Il modello classico funziona?
La situazione intesa in senso stretto nelle carceri italiane rimane complessa: nei 195 istituti penitenziari italiani, al 31 gennaio 2016, erano presenti 52.475 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.480. I detenuti in eccedenza rispetto ai posti previsti erano 3.048 (+7,5%). Il tasso di recidiva all’inizio del 2015 era pari al 69%; questo significa che dei circa 1.000 detenuti che escono dalle carceri ogni giorno, circa 690 ritorneranno a delinquere. Senza voler criticare gli operatori penitenziari, che lavorano spesso in situazioni eroiche, va sottolineato che lo Stato spende solamente 95 centesimi al giorno per l’educazione dei detenuti, rispetto ai 200 euro pro-capite previsti. Per il mondo della giustizia rimane una domanda antica: in quale modo è possibile garantire la certezza della pena insieme alla certezza della rieducazione? La popolazione carceraria è di sua natura poco rappresentativa della società: il 5% dei detenuti sono analfabeti, il 45% è straniero, il 38% è senza fissa dimora, solamente l’1% dei detenuti sono laureati; il tasso di suicidi nelle carceri è 18 volte superiore a quelli fuori.
La voce di un familiare di una vittima
«La difficoltà più grande nel percorso di elaborazione del lutto, per un familiare di vittima delle mafie, è la socializzazione del proprio dolore privato, mettere a disposizione degli altri la propria storia perché diventi una leva del cambiamento, per trasformare la realtà che ci circonda. Una volta superata questa difficoltà, ti rendi conto che non sconfiggerai mai le mafie se non ti occupi delle periferie delle nostre città, se non pratichi quei luoghi dove le mafie sono più forti, anche per la colpevole disattenzione di chi ruba ai nostri ragazzi il futuro e non dà altra possibilità se non quella di aderire a un modello criminale»[1]. È questa la testimonianza di Dario Montana, fratello di Beppe, il commissario della Squadra mobile di Palermo ucciso da Cosa Nostra il 28 luglio 1985. Dario vive a Catania con i volontari del coordinamento e segue la strada tracciata dall’esempio di Deborah Cartisano in Calabria e dei tanti familiari che in Campania hanno attraversato il portone di un carcere per far conoscere le storie dei propri familiari e parlare di lotta alle mafie.
La giustizia riparativa
Riconciliarsi è dunque possibile. Per «rifondare» la giustizia occorre una conversione culturale che contrapponga alla visione retributiva quella riparativa, che si fonda su una domanda: cosa può essere fatto per riparare il danno? [2] La riparazione non è solamente riconoscimento, include un percorso di riconciliazione che è impostato su quattro passaggi fondamentali: la consapevolezza da parte del reo della propria responsabilità; la comprensione da parte del reo dell’esperienza di vittimizzazione subita dalla vittima e del danno compiuto nei confronti della comunità intera; l’elaborazione, da parte della vittima, della propria esperienza di vittimizzazione; infine, la presa di coscienza da parte della comunità dei livelli di rischio.
Il modello della giustizia riparativa, chiamata anche restorative justice, è molto diffuso soprattutto negli Stati Uniti e in Canada. Lo studio del modello nel Minnesota ha prodotto dati sorprendenti, soprattutto le vittime di un reato hanno dimostrato un alto livello di gradimento per gli esiti del modello riparativo: circa il 79% delle vittime ha partecipato alla mediazione e di queste il 95% ha dichiarato la sua soddisfazione, mentre l’87% degli autori di reato si è dichiarato soddisfatto del modello. Degne di nota sono anche le esperienze di alcuni Paesi europei come Austria, Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Portogallo, Spagna. Anche l’Unione Europea è molto attenta al modello[3].
Nei Paesi anglosassoni, è avvenuto un vero cambiamento promosso dalle comunità, dalle persone, dal basso. Si è partiti con un’idea di restorative community e si è fatto un importante investimento sulla promozione del paradigma riparativo nella formazione dei bambini che, oltre a essere i cittadini del domani, rappresentano la possibilità di cambiare prospettiva nella risoluzione dei conflitti interpersonali.
Se il modello della giustizia riparativa sta dando buoni risultati e timidamente sta entrando anche nel nostro Ordinamento per quale motivo la pena deve rimanere (solo) detentiva? Lo ribadiamo: l’idea di corrispettività della bilancia della giustizia in cui al negativo bisogna rispondere con il negativo ha dimostrato il suo fallimento.
Certo non è semplice. Lo ribadisce anche l’autorevole esperienza di don Ciotti: «Non parliamo, beninteso, di un cammino facile, perché la giustizia riparativa è, prima di un sistema giuridico, un prodotto culturale, capace di promuovere percorsi di riconciliazione senza dimenticare le esigenze della giustizia “retributiva”, incentrata sul rapporto tra il reato e la pena, e della giustizia “riabilitativa”, più attenta al “recupero” del detenuto […]. Percorsi delicati, quasi mai lineari, […] perché il ricostruire le relazioni umane e il tessuto sociale non può andare a discapito dell’equità, della certezza e della funzione riabilitativa della pena».
[1] F. OCCHETTA, La giustizia capovolta. Dal dolore alla riconciliazione, Milano, Paoline, 2016, 88.
[2] Cfr. L. Eusebi, Una giustizia diversa. Il modello riparativo e la questione penale, Milano, Vita e Pensiero, 2015.
[3] La Raccomandazione R(85) 11 del Consiglio d’Europa chiede ai Governi degli Stati membri di adeguare le loro normative rivedendo il ruolo della vittima nel processo penale. Ma il nostro ordinamento non ha ancora accolto l’invito.