Vittime e detenuti. Le vie della riparazione

Il carcere. Il rumore della chiave che apre le porte blindate, l’aria stagnante, l’attesa dell’ora d’aria. Entrare in un carcere è come scendere nelle catacombe di una città dove persone e storie sono allontanate dalla vista. Eppure proprio da un modo nuovo di pensare a quel mondo e da nuove relazioni diventa possibile una giustizia nuova e decisamente capovolta.

Ricordo tutto. Era l’inizio degli anni Duemila quando trascorrevo le domeniche mattina all’interno del carcere di San Vittore a Milano. Qualche anno dopo ho prestato servizio nelle carceri di Bucaramanga in cui erano rinchiusi i guerriglieri, nella zona del Magdalena medio in Colombia. Sono infine stato nelle carceri di Arica in Cile, costruite nel deserto di Atacama.

È da quei luoghi che mi sono detto: bisogna capovolgere la giustizia. Nella mia memoria è rimasta la traccia di ogni particolare del mondo del carcere: prima i controlli, poi i cancelli da attraversare, i lunghi corridoi da percorrere, i pensieri che si alternano alle paure, fino all’incontro con le detenute e i detenuti. Nel carcere i detenuti tendono a regredire verso forme di appagamento infantile. Vivono del loro passato. Di quell’universo non si può dimenticare nulla.

Per coloro che parlano un’altra lingua o, semplicemente, sono rinchiusi in se stessi, il presente è mediato quasi esclusivamente dai ritmi del penitenziario: il rumore della chiave che apre le porte blindate, le luci al neon, l’aria stagnante, l’arrivo dei pasti, l’attesa dell’ora d’aria. Entrare in un carcere è come scendere nelle catacombe di una città dove persone e storie sono allontanate dalla vista per fare finta che non esistano. Significa rimuoverle dall’inconscio sociale.

jail

Un complesso mondo di relazioni

L’universo carcere non si limita a essere i suoi detenuti: è un mondo complesso di relazioni. Un mondo fatto di incontri e di scontri, di interessi e di paradossi, intorno a un grande assente: le vittime con il loro dolore. Lo Stato è in genere attento a risarcire le famiglie colpite, ma il dolore della vittima non ha prezzo. Soprattutto, non cessa dopo essere stato risarcito. La pena stessa inflitta al reo non tiene in conto la riabilitazione della dignità della vittima.

Capovolgere la giustizia significa anzitutto tenere insieme azione e riflessione per non astrarre o concentrarsi solo sulla cura contingente. Ma anche imporre un progetto di bene al male, non la riproduzione del male fatto. Per quale motivo la pena deve rimanere detentiva?
L’idea di corrispettività della bilancia della giustizia in cui al negativo bisogna rispondere con il negativo ha dimostrato il suo fallimento.

Capovolgere la giustizia!

L’universo carcere rimane tra i temi sociali e politici più scottanti nelle culture democratiche, ancora troppo divise tra giustizialisti e permissivisti. I primi considerano le carceri «discariche sociali» – secondo la nota definizione del sociologo Bauman –, realtà esterne alle città, in cui la punizione deve prevalere sul recupero. I secondi, invece, ritengono – correndo il rischio di non distinguere il grado di pericolosità del colpevole o la sua disponibilità a pentirsi – che le carceri facciano più male che bene. Tra questi, non mancano le posizioni di magistrati «convertiti» – come Gherardo Colombo –, i quali considerano i penitenziari inefficaci, se non addirittura dannosi per la società, perché, «invece di aumentare la sicurezza, la diminuiscono, restituendo uomini più fragili o più pericolosi».

Così, ogni volta che ci si addentra nella riflessione legata al carcere e al significato della pena, il rischio è di appiattirsi su una delle due posizioni menzionate. La diffidenza intorno alla detenzione cessa solo quando si viene risucchiati dall’universo carcere, per aver commesso un reato, oppure per averlo subìto, per avere familiari o amici in cella o, più semplicemente, per essere un dipendente della giustizia o un volontario. È l’esperienza vissuta in prima persona a rivelarsi capace di promuovere nuovi modelli di giustizia in grado di far espiare il male compiuto, riabilitando la persona che lo ha commesso. Le storie che lo testimoniano senza fare notizia sono molte.

Giustizia è umanità

Claudia Francardi, vedova di un carabiniere ucciso il 25 aprile 2011 da Matteo Gorelli, allora diciannovenne, ha dichiarato: «Dietro il mostro ho scoperto un ragazzo, il cui dolore per ciò che ha fatto resterà per sempre come il mio» (L’Espresso, 21 maggio 2015). È lei a chiedere allo Stato di fare giustizia e non vendetta attraverso un percorso di riabilitazione che non si limiti al carcere. Insieme alla madre del ragazzo, la vedova condivide la speranza che Matteo (il detenuto) «diventi da adulto una persona capace di onorare la memoria di Antonio [il marito carabiniere]». Perché, aggiunge: «Il dolore per quello che ha fatto non lo lascerà mai». Andare oltre il dolore che rimarrà per sempre permette a Matteo di scontare la pena nel carcere di Bollate e di percepire il valore rieducativo del suo tempo.

Esistono gesti compiuti dalle vittime dei reati o dalle loro famiglie così disarmanti a livello esistenziale da fecondare una nuova idea di giustizia.

La madre del giudice Livatino, quando le è stato chiesto se avesse perdonato gli assassini di suo figlio, rispose: «Anche se dentro di me ero spinta a non farlo, ho perdonato perché ho pensato a mio figlio e al Vangelo che teneva sopra la scrivania: Rosario avrebbe perdonato».

La radicale «impotenza» generata dal dolore può portare alla forza della parola «perdono».

Il dolore delle vittime dei reati va rimessa al centro dell’Ordinamento. Solamente una giustizia riparativa può sanare il cuore delle vittime e responsabilizzare l’espiazione della pena dei rei. Ma capovolgere la giustizia è una sfida urgente e irrinunciabile per ogni coscienza morale individuale e comunitaria di ogni popolo.

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L’articolo è tratto dal sito: http://www.paoline.it/blog/attualita-e-societa/1019-dal-dolore-alla-riconciliazione.html

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