Dico spesso che la comunicazione è come una “soglia” sulla quale si affaccia la vita degli uomini del nostro tempo. È l’immagine stessa della vita, che per sua natura cerca frontiere per espandersi – fino anche ad andare oltre la propria corporeità – per incontrare e relazionarsi, conoscere e autocomprendersi meglio. È forse per questo che il sogno più grande dei giovani italiani, dopo quello di diventare medici, è essere comunicatori (giornalisti, fotografi, pubblicitari ecc.).
La comunicazione sociale e politica è oggi davanti a un bivio. Nella pro-vocazione di abitare questa nuova soglia bisogna immaginare una linea: per alcuni è “una fine” da cui difendersi, per altri è “il fine” a cui tendere, per altri ancora è un “con-fine” da abitare umanamente. Dietro questa linea, comunque, troviamo sempre degli uomini accompagnati dalle loro idee. Alcuni di essi, il più delle volte poco conosciuti al grande pubblico, con il loro lavoro strutturano ridefiniscono la comunicazione. Il dialogo con loro è un’occasione che apre alla conoscenza, allo sviluppo e a un’idea solidale di comunicazione.
È per questo che ho chiesto a Giovanni Parapini, da 30 anni uno dei manager italiani di maggior rilievo nel campo della comunicazione, che attualmente vive a Bruxelles, di raccontarsi e di illustrarci come questa sta evolvendo e lungo quale soglia ci porta.
Antonio Campo Dall’Orto ha nominato Parapini nuovo direttore della comunicazione della RAI. Assumerà il suo incarico a partire dal 1° febbraio.
Chi è Giovanni Parapini?
«Sono nato a Brescia il 21 dicembre 1962. Sono il figlio di un generale dei Paracadutisti che durante la seconda guerra mondiale è stato prigioniero per due anni in un campo di concentramento, prima in Polonia e poi in Germania; mia madre, invece, ha costruito la sua carriera come responsabile delle pubbliche relazioni di Christian Dior, negli anni in cui le donne non lavoravano ma badavano solo ai figli. Dai miei genitori sono stati scolpiti due tratti che mi hanno accompagnato nella vita: l’onestà e la capacità di creare relazioni forti e durature nel tempo. Aggiungo un altro elemento: gran parte della mia giovinezza, insieme a mia sorella e a mio fratello, l’ho vissuta in Umbria, immerso nel paesaggio e nei ritmi della cultura di Francesco d’Assisi; l’amore per quella terra mi ha permesso di crescere tra il silenzio e lo studio».
Quali esperienze lavorative e di vita ha vissuto fuori dal nostro Paese?
«Ho sempre amato viaggiare, tuttora considero il viaggio una università di vita che oltre ad avermi permesso di studiare discipline diverse, mi ha formato nel carattere e nella conoscenza.
Inizio da Oxford con il classico corso di lingua per le medie, poi l’Africa insieme a uno zio “pazzo” (Carlo Parapini) che ha scritto un volume, Transafrica Pix, nel quale, oltre l’avventura, leggevo un insegnamento.
Alla fine degli anni Ottanta scopro l’America Latina: un amore che mi accompagnerà per tutta la mia esistenza e che ancora oggi mi trova impegnato in alcuni paesi come l’Ecuador, il Cile e Cuba, che posso dire di conoscere bene.
In Brasile ho fatto una delle esperienze più importanti e indelebili della mia vita, ho vissuto per 2 mesi a Manaus nell’ospedale dei lebbrosi, a fare volontariato con la Caritas. Non c’è bisogno che dica altro. Lì la mia vita ha avuto un “prima” e un “dopo”, sono cambiato per sempre, ho capovolto le priorità e ho trovato nella semplicità e nella vicinanza agli altri i doni più grandi che si possano incontrare nella vita.
La professione mi ha portato poi in giro per il mondo e oggi vivo a Bruxelles dove, fino a qualche giorno fa, curavo la comunicazione di alcuni miei clienti al Parlamento Europeo e alla Commissione».
Lei che è un manager e ha insegnato in varie Università, può riassumere con tre parole il suo lavoro nel campo della comunicazione?
«Anzitutto ottimismo, vedere al di là degli ostacoli o delle invidie per creare e ricreare progetti che abbiano al centro una visione che “sorride”. La seconda parola è “ricerca”, il motore del progresso senza il quale oggi saremmo ancora nell’età della pietra. Per me questo significa non smettere mai di studiare, capire, investigare la conoscenza. Infine la parola “riservatezza”: questa è connessa alla mia personalità, non riesco a parlare per parlare, non riesco a commentare fatti che non conosco, non sono capace di tradire la fiducia data».
Come vede il Paese Italia?
«Visto da Bruxelles, in deciso miglioramento. Quando invece ritorno in Italia, mi rendo conto che prevalgono le dinamiche di sempre, gli uni contro gli altri, a volte chiusi, spesso autoreferenziali, nella maggioranza dei casi soffocati dal proprio perimetro, in attesa di occupare quello del vicino».
Accompagnando l’evoluzione della comunicazione nel nostro Paese: che parola di speranza può rivolgere?
«Quella di aprirsi al mondo e di non avere paura. Poi riconoscerlo, per riconoscersi. E poi sapere fare memoria e interpretare il proprio vissuto. La comunicazione è autentica se lascia traccia e fa crescere la parte umana di chi la vive. Se invece sfrutta e passa sulla vita della gente, è la negazione del suo fondamento. In questi anni sono evoluti i mezzi fino a cambiare le abitudini di vita, ma continuano ad essere i contenuti e le parole il ponte tra le vite degli uomini».
Alle giovani generazioni che amano questa professione, difficile e spesso poco garantita, quale parola si sente di rivolgere?
«Io appartengo alla generazione di Giovanni Paolo II, che ci ricordava di “aprire le porte alla speranza!”. La comunicazione non la si costruisce soli e nella logica del “tutti contro tutti”. Si deve avere il coraggio di aprire le porte del proprio lavoro, dare fiducia ed essere affidabili. C’è poi una responsabilità che va oltre la dimensione privata, ed è quella di costruire bene comune, servizio pubblico, opinione pubblica e democrazia».
Su di Lei è uscita un’importante notizia che comunica “un prima e un dopo” nella sua professione. Mi può dire qualcosa di più?
«Dopo 12 anni di attività ho lasciato ciò che avevo concorso a costruire, Aleteia Communication, poi confluita in un gruppo più grande il cui acronimo è’ HDRÀ, ma che si legge “accadrà”. Una scelta serena e consapevole che non mi allontana dalla mia famiglia professionale, ma me ne separa nell’orizzonte futuro. Ho voglia di misurarmi con una nuova sfida, in modo più consapevole ma con l’umiltà frutto di quel seme germogliato nella lontana Amazzonia».
Marianna e Lei siete genitori del piccolo Arthur. Quale pensiero vuole fare volare a loro?
«Ricordarmi che la comunicazione è soprattutto comunione. E insieme a loro farla diventare vita».