Ivan Maffeis, direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Cei, dialoga come fa un direttore d’orchestra che personalizza i pezzi da eseguire e sceglie la maieutica per far emergere il fondamento dell’agire con 15 cronisti dell’informazione.
Il volume, I cronisti dell’invisibile, può essere letto in filigrana attraverso alcune parole chiavi che restituiscono al lettore un profilo credibile di professionista dell’informazione e costituiscono il minimo comune denominatore per un profilo di giornalista corretto e credibile.
La prima parola ad emerge è «rigore» che permette a una testata di vivere di notizie e non di opinioni. Secondo Marina Corradi, editorialista di Avvenire, per «restituire la voce a ciò che è stato» sono necessari «la conoscenza dei fatti, l’incisività di giudizio e una precisa visione delle cose».
Franca Giansoldati, vaticanista de Il Messaggero, evoca, senza però esplicitarlo, il ritorno alla «bottega artigiana» per la formazione dei futuri giornalisti. Per parlare di Chiesa le scuole giornalistiche non bastano, sono necessari dei testimoni che trasmettano insieme alle buone pratiche anche una testimonianza ai loro allievi.
Paolo Rodari, giornalista de la Repubblica sottolinea la parola «prudenza» intesa come arte che si affina e cresce con gli anni e aiuta a distinguere il gossip dalla notizia religiosa. Nel suo raccontarsi parla anche di un’altra parola chiave, la «motivazione» culturale; egli ritiene che il giornalismo del vaticanista deve sempre essere frutto del binomio fede-giustizia. Senza la prima dimensione si rischierebbe di ideologizzare i temi, senza la seconda, invece, si incorre nel rischio di spiritualizzarli e decontestualizzarli.
Irene Hernández Velasco che lavora per El Mundo e Domenico Delle Foglie, direttore dell’agenzia Sir, illuminano la parola «locale»; i loro interventi ci portano a riflettere di quali notizie religiose hanno bisogno i territori; quale ecclesiologia sta disegnando la comunicazione dei vaticanisti; in quale rapporto vengono narrate le chiese locali con il Vaticano.
La parola «profondità» è evocata da Aldo Maria Valli quando ricorda il suo incontro con il card. Carlo Maria Martini, quando, vinta la reciproca timidezza, è possibile «scolpire un rapporto» per vedere dentro l’altro. Valli sottolinea per la Chiesa l’importanza di riscoprire il linguaggio del cuore di Francesco che «buca le persone» e sa essere empatico.
Il termine «parresia» emerge negli interventi di Massimo Franco, notista politico del Corriere della Sera, di Giovanni Maria Vian e di mons. Dario Viganò; significa dire con coraggio la verità, a ogni costo. La difesa a oltranza e a ogni costo del diritto di informazione pretende di richiamarsi a questa virtù antica, la quale però ha una forma che le somiglia, ma che è opposta nella sostanza: l’ipocrisia. L’ipocrita è chi sostiene di dire la verità per amore del vero, ma in realtà mira soltanto a ottenere un qualche vantaggio; il parresiasta dice la verità che ha conosciuto, a costo di pagare altissimi costi personali. Il parresiasta infatti è un testimone: non pretende di conoscere tutta la verità, ma sa qualcosa di essa, e sente il dovere di dirlo. È un soggetto in doppia relazione: con la verità, e con gli altri, ai quali non può non comunicarla, a costo appunto di un danno personale. Questo per Stefano Maria Paci richiede una preparazione rigorosa e un linguaggio adatto.
Lucio Brunelli, direttore di Tv2000, sottolinea la parola «attrazione» — afferma che l’informazione religiosa cresce «per attrazione non per proselitismo» — mentre altri interventi come quello di Raffaele Luise e di Tornielli evocano la parola «soglia» che permette di uscire dall’autoreferenzialità di strutture e progetti e di coniugare la velocità con la profondità dei contenuti.
P. Federico Lombardi ricorda la parola «frontiera» che il Papa aveva consegnato agli scrittori de La Civiltà Cattolica, per ricordare ai giornalisti di non addomesticarle ma di abitarle e inculturarsi.
Le 10 parole che i colloqui ci consegnano aiutano a discernere il vaticanista corretto e credibile da quello scorretto. Nell’introduzione al volume, mons. Domenico Pompili ricorda che per comunicare in modo efficace ci vuole «una formazione quotidiana, che non è solo studio, ma lavoro su se stessi, capacità di silenzio, di ascolto, di lettura, in ultima analisi, di amore al mistero dell’uomo».
In un tempo, infatti, in cui non mancano giornalisti che confondono e trafficano le fonti per interpretarle contro l’istituzione Chiesa e arricchirsi, la differenza tra l’essere vaticanista o fare il vaticanista è la stessa che distingue chi serve una missione o chi si serve della missione, come fanno i mercenari.
Per approfondire leggi il n. 3972 de La Civiltà Cattolica