Il Grande Fratello e la normalità perduta

Il «Grande Fratello», reality show nato nel 1999 in Olanda, è ormai giunto alla sua 14° edizione italiana che, con una media di cinque milioni di telespettatori a puntata, è seguito soprattutto da giovani.

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Il successo del programma sta proprio nella sua forma, non nei suoi contenuti. Gli organizzatori sono riusciti nel loro intento di farsi «scomunicare», senza voler comunicare nulla di preciso. Non c’è Paese in cui la trasmissione non venga criticata. Ma più lo si critica più la trasmissione cresce e vive. Per questo l’idea di normalità è rovesciata: partecipano due transgender, storie di vite molto particolari ecc. C’è invece poca traccia dei ragazzi che studiano, quelli che fanno fatica a trovare un posto di lavoro, hanno delle relazioni stabili e durature, fanno volontariato, costruiscono politiche nei territori…

 

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La trasmissione pone una condizione sola: scegliere di essere giudicati per essere guardati.

Ma il monito viene dal regista della prima edizione Fosco Gasperi, che ai concorrenti dice: «Il mondo dello spettacolo si vendicherà di voi, vi detesterà. Quindi non sognate un futuro da discoteca. Quando uscite prendete tutto quel che potete, ma non illudetevi». La messa alla prova prevale sul saper fare o sulle conoscenze di ciascuno. Uno dei maggiori motivi di critica, secondo gli esperti, è stata l’assenza di qualità dimostrate dai partecipanti. I riflettori e l’attenzione del pubblico sono puntati non sulle capacità dei concorrenti, ma sul loro mondo interiore e su come riescono sotto pressione a gestire la qualità delle relazioni.
Il luogo dove la propria interiorità verrebbe mostrata è nel confessionale, nel quale i singoli concorrenti possono parlare senza essere ascoltati dagli altri. Qui ognuno rivela i propri sentimenti, svela il proprio essere e apparire. Questo è davvero il momento più delicato e violento per gli ospiti, costretti a entrare nello «spazio sacro» della loro vita, quello della coscienza.

Invece di dialogare, proteggere e custodire quella voce, essi sono costretti a violarla e a mostrarla a tutti a causa dalla spettacolarizzazione. In più, invece di trovare accoglienza e perdono, in quel tipo di confessionale ci si confronta con una relazione che tenta e manipola. Il fatto che ai concorrenti vengano offerte una decina di sedute terapeutiche al termine della loro prova, indica la gravità del pericolo in cui incorrono. Ma non è finita. Dai discorsi dei concorrenti mancano tre valori fondamentali: l’impegno sociale, l’amicizia e il rapporto con Dio. Al centro degli interessi dei concorrenti e del pubblico c’è soltanto la sfera privata degli individui, dove il confine fra lo spazio pubblico e privato non esiste più: contano solamente le biografie dei singoli, come, ad esempio, il bisogno di rivendicare come normalità l’essere transessuale, bisessuale ecc. Ci chiediamo: questi messaggi è bene che arrivino — e in questo modo — ai ragazzi che stanno strutturando la propria personalità?
Anche il valore dell’amicizia rischia di essere minato alla radice: io divento tuo amico se abbiamo un terzo (un nemico) da combattere ed escludere dalla gara. Non ci si riconosce persona attraverso il valore della gratuità dell’amicizia, che infonde stima e aiuta a conoscersi.

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Ne consegue un’attenzione dominante per il presente, una ricerca di costante apertura delle possibilità, la brevità delle esperienze vissute prima di passare alle prossime, all’uso e consumo dell’altro. Dire male dell’altro diventa l’arma dei forti e di chi si sente sicuro.
Le dinamiche di amicizia degli inquilini sono una spia di come si vive l’amicizia oggi? Sta cambiando l’idea di amicizia classica? Aristotele identificava l’essenza dell’amicizia nella koinônia, la comunione intesa come condivisione di vita, il mettere in comune fino a dare la vita per i propri amici, come insegna il Vangelo di Giovanni. L’amicizia vera, quella perfetta e autentica, è fondata sulla gratuità; i suoi surrogati sono quelli che propongono le dinamiche del Grande Fratello, quella del do ut des o addirittura quella di basarla sul piacere e sul consumo di rapporti.

Zygmunt Bauman paragona il Grande Fratello di G. Orwell a quello odierno, sottolineando come quello del passato era destinato all’«inclusione: integrare le persone, metterle in riga e tenercele», mentre quello di oggi mira all’«esclusione: individuare le persone che non si adattano al posto loro assegnato, scacciarle di lì e deportarle dov’è il posto loro, o meglio ancora non permettere loro mai di avvicinarsi», agendo così da buttafuori degli indesiderabili.

La tragicità del Grande Fratello di G. Orwell sembra scontrarsi con la banalità volgare e prepotente del «Grande Fratello» del reality: il primo è fondato sul dominio di potere invisibile e totalitario sulle persone libere e responsabili, riducendole ad automi, che neppure si rendono conto di essere costrette a fare quello che fanno; il secondo è fondato sul bisogno di apparire, di acquisire una notorietà fondata sul nulla e, soprattutto, sul desiderio di far denaro, vincendo il premio dovuto a chi resta. Ma che costo ha la vittoria? Si deve mettere a nudo la propria intimità ed eliminare l’altro con la delazione e con comportamenti che offendono la propria dignità.

Alla presentazione del programma del 2000, Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, dichiarò che l’iniziativa era esclusivamente un’operazione commerciale, che è la logica di molti dei programmi della tv di oggi. Le conseguenze di questa scelta, che ha permesso l’esaltazione di falsi valori, rende il gioco profondamente diseducativo, sfruttando il narcisismo e il desiderio di apparire.

È perciò sulle persone che organizzano il programma che il giudizio soprattutto umano — oltre che morale — dev’essere più severo. La trasmissione però non è soltanto la causa ma anche l’effetto del disagio e della paura delle giovani generazioni, tanto da contenere «gli urli» e le contraddizioni di coloro che si trovano «nel e sul mercato, al tempo stesso, o in modo intercambiabile, clienti e merci».

Questo aspetto non può non interrogare l’intera società.

Del fenomeno rimane l’uso che se ne fa e come lo si assume. Compito degli educatori è aprire gli occhi sulle trappole della trasmissione: genitori, degli educatori, delle parrocchie, delle associazioni giovanili e dei movimenti è smascherare le dinamiche descritte parlandone con i ragazzi che vi si immedesimano per distinguere ciò che è permesso da ciò che è buono, ciò che inganna da ciò che dura e porta frutto; accompagnare i ragazzi affinché non imitino nella vita ciò che il reality propone come un gioco a scopo commerciale.

Si deve superare lo stereotipo che chiede di recitare al meglio un ruolo perfetto per piacere agli altri, farsi scegliere da chi ti guarda e conseguire il premio in denaro. Altrimenti il rischio è di educare nuovi «gladiatori» in cui «nell’arena di un circo romano si dispiega il loro ludus, il loro pre-ludio di morte che ritualizza, anticipa la morte, l’eliminazione dell’altro.

Rimane aperta la domanda di Bauman, il quale si chiede se agli esseri umani rimanga come risposta di senso trovare una soluzione tra ciò che rappresenta il Grande Fratello di G. Orwell e il Grande Fratello della reality, «se il gioco dell’inclusione/esclusione sia l’unico modo in cui si può condurre la vita umana in comune». In realtà esiste una terza definizione di Grande Fratello: avviarsi per un cammino che permetta di diventare «grande fratello» sentendosi responsabili delle necessità degli altri, fino a dare anche la vita.

Ma lo scopo del Grande Fratello rimane lo stesso nel tempo: eliminare gli altri concorrenti, vincere 500.000 euro e diventare famosi. 

Leggi l’articolo sulla Civiltà Cattolica

Riproduzione vietata @OcchettaF

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