La riforma del Terzo Settore, tanto attesa nella società civile, rischia di insabbiarsi nelle sabbie mobili del Senato. Riporto qui quanto ho già detto a Vita.
Si posticipano i tempi, interessi di lobby contrarie alla riforma, gli accordi della politica sul “tu mi blocchi questo e io ti do questo”… insomma tutte dinamiche prevedibili.
Io credo nella riforma per tre motivi: il primo è storico, il secondo è culturale, il terzo è spirituale.
Questa non è una riforma come le altre. Qui ci giochiamo la qualità del lavoro, la sua umanizzazione e un nuovo modo di incontrarci in società grazie allo spirito cooperativistico. È per questo che la riforma prima di essere tecnica e organizzativa, richiede una conversione culturale. Sono troppe le persone che ascolto e mi dicono “con questo modo di lavorare e con questi ritmi disumani non ce la faccio più”.
Ecco la prima ragione storica. Sapete chi sosteneva il Terzo settore? Il padre della cultura liberale, John Stuart Mill. Secondo lui l’impresa capitalistica – fondata sul principio di gerarchia col capo che comando e si deve adulare – era un residuo del mondo feudale mentre era il movimento cooperativo che favoriva nel mondo del lavoro il principio di libertà. E non è questo aspetto perduto che mette in crisi il senso del lavoro di troppe persone?
È rimasta celebre la sua profezia: “non c’è nulla di più sicuro tra i cambiamenti sociali del prossimo futuro di una progressiva crescita del principio e della pratica della cooperazione” (cap. IV dei Principles of Political Economy del 1852).
Era una profezia! A dirlo era Stuart Mill. Oggi siamo ad un passo dal realizzarla ma troppe forze, legate ad un modo di fare mercato che ha fallito quello che ha promesso.
La prima cooperativa al mondo nasce in Inghilterra 1844 a Rochdale era una alternativa all’industria capitalistica. È una cooperativa di consumo, in cui parte degli utili formava le persone: restituiva loro dignità, erano infatti analfabeti, non conoscevano i loro diritti, non comprendevano nemmeno il senso politico del lavoro e la costruzione del bene comune. Ma tutti remavano verso lo stesso fine incluso chi li dava lavoro oltre al profitto si curava un ben-essere umano e politico.
La seconda cooperativa di consumo è stata fondata a Torino… ma in Italia la cultura della cooperazione non è stata sviluppata da nessun scuola di pensiero che ha sviluppato la cooperativa. E così le cooperative sono state considerate “forme inferiori” pensate solo per i più deboli.
C’è poi una seconda ragione culturale per sostenere la riforma. Il cambiamento ha bisogno di 3 condizioni:
- superare la mentalità assistenzialistica che ha succhiato dal seno dello Stato quello che non avrebbe dovuto o è collaterale all’amministrazione pubblica (ma ahimè i soldi della PA sono finiti).
- essere riconosciuti con la stessa dignità giuridica delle società perché anche l’imprenditore del Terzo Settore rischia come e più degli altri (questo lo dico perché tra molti “pastori buoni” che amano il loro gregge si travestono anche tanti lupi e mercenari in cui il male è fatto sub specie boni).
- essere riformati a livello fiscale, ma anche a livello giuridico, penso a superare le differenze del titolo I e del titolo V per dare ragione ad una storia che ha troppo penalizzato questo mondo (il liberalismo prima, il fascismo poi, ma anche una buona parte di storia repubblicani). Facevano cooperativa i deboli o gli scarti sociali.
La cultura della cooperazione, fondamento del Terzo settore, deve rilanciare la sua speranza nel bene comune e non guardare a difendere quello che si è conquistato.
Il cambiamento della riforma del Terzo settore è proprio qui: passare dalle logiche «no profit» il nessun profitto a quelle «not for profit» in cui “l’attività svolta non è finalizzata alla massimizzazione di un profitto commerciale”.
Nella tradizione biblica il “valore” non è solo distribuire valore (economico) creato da altri ma anche creare valore per altri. È ciò che la Chiesa chiama civilizzazione e umanizzazione dell’economia.
Questo cambiamento culturale all’interno del Terzo settore più che tecnico è dunque spirituale, non religioso. Ecco la mia terza regione.
Sono le Scritture ad insegnare che davanti alle crisi umane e comunitarie, incluso quelle lavorative, siamo chiamati afidarci per “innovare” e cambiare:
– Abramo ha dovuto lasciare la sua terra in tarda età;
– la fiducia di tante donne sterili ha generato vita;
– le tante immagini evangeliche come quella del seme che muore o del tralcio secco che va tagliato perché la vita ritorni a nascere.
Davanti a questa crisi ci salviamo tutti o tutti sprofonderemo.
Dalla crisi è l’economia sociale che dà speranza è una visione nuovo.
La Chiesa infatti non chiede di superare l’idea né dell’economia di mercato né dell’azienda, ma quella di un mercato esclusivamente ripiegato sull’obiettivo del profitto a tutti i costi che definisce «risorse umane» le persone equiparandole a una voce tecnica dell’azienda e che prescinde dall’eticità dei mezzi, dei fini e da un’antropologia al servizio della persona.
Potrei scrivere ancora molto per cercare di convincervi della bontà e dell’urgenza di questa riforma… ma vi rimando a questi approfondimenti:
Perchè credo nella riforma del Terzo Settore
La riforma del Terzo Settore come speranza per il mondo del lavoro
L’ultima cosa che vorrei fare è un appello a tutte le persone che nella società vivono e sopravvivono grazie allo spirito cooperativistico in cui non c’è lotta e scalata di potere. Fate diventare cultura la riforma, organizzate incontri, sensibilizzate gli uomini politici che non la conoscono.
Non si tratta di una lotta contro qualcuno o qualcosa, ma di un sogno da realizzare insieme a favore di tutti.
Ciao Padre Francesco, non è la prima volta che sento parlare di “no profit” e “not for profit” (soprattutto da te).
Sono sempre più convinto che sarebbe una rivoluzione per il mondo del volontariato, adesso attento ad avere solo attività commerciali residuali o marginali, e di conseguenza con molte realtà obbligate a sopravvivere di “offerte”. Potrebbe però veramente essere una straordinaria leva per modificare, ammorbidire, la “cultura” della massimizzazione del profitto, cultura che purtroppo non è solo delle aziende, ma anche di tante persone e famiglie.
Speriamo veramente che la riforma prosegua e sulla giusta strada.