A coloro che hanno responsabilità: “pagate i giovani degnamente”

A coloro che hanno responsabilità voglio dire: “Pagate i giovani degnamente secondo i principi di giustizia solidarietà ed equità”. Il 1° maggio di ogni anno in molti Paesi del mondo si ricordano i traguardi raggiunti dai lavoratori in campo economico e sociale.

Anche quest’anno però celebriamo la festa del lavoro che spesso non c’è. Tra le mille cose che si possono ribadire in quest’occasione vorrei sottolinearne una sola: l’urgenza di ritrovare un patto sociale tra generazioni diverse. 

Le righe che seguono sono dunque rivolte a coloro che hanno responsabilità e possono creare le condizioni per rilanciare un nuovo patto di solidarietà tra le generazioni nella società italiana ed europea.

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Caro professore, dottore, avvocato, manager, uomo di cultura, monsignore…

insomma a Te che hai la fortuna e la responsabilità – per capacità e competenza – di occupare posti di responsabilità nella società italiana e nella Chiesa del nostro tempo, voglio porti una domanda senza davvero voler essere polemico:
per quale motivo ragazzi bravi che svolgono lavori manuali o intellettuali vengano oggi sottopagati?

Conosco e accompagno tanti ragazzi che mi raccontano le loro storie. E spesso mi chiedo: cosa sta succedendo nei rapporti tra adulti e giovani?

Per quale motivo, per esempio, i responsabili di molti studi professionali, quando un giovane fa bene il suo lavoro, è responsabile ed ha superato un giusto periodo di prova e di tirocinio, viene retribuito da te con 500/600 euro?

Spesso le ore che un ragazzo passa nel tuo ufficio sono tra le 8 e le 10. A volte per un “controllo sociale” dei colleghi, anche se ha terminato il proprio lavoro, rimane sul posto di lavoro per emularsi…

giovani-lavoro-Savona_DWNE’ strano. La festa del lavoro e dei lavoratori sembra svuotata di senso. Come mai quando crei o incontri situazioni ingiuste, oppure un tuo lavoratore viene ingiustamente penalizzato, i colleghi, per difendere il proprio interesse, non difendo più il diritti di tutti e non si battono per collega che subisce il torto?

Tutte le canzoni che si cantano il 1° maggio non hanno senso oggi… gli ideali comunitari di sapere che il mio destino dipende anche dal destino degli altri non è più un valore. Se oggi la tua azienda o il tuo studio va male i “contratti di solidarietà” sono virtuosismi troppo lontani dalla logica comune. Io ci guadagno mentre gli altri affondano.

Come sai il divario sta crescendo esponenzialmente tra te e i tuoi lavoratori: nel 1960, prima della crisi, un manager guadagnava 4 volte più di un lavoratore; negli anni Settanta, ha iniziato a guadagnare 40 volte di più; nel 2000, invece, si è arrivati a stipendi 500 volte maggiori del salario medio della classe lavoratrice. Dico: 500! Marx prenderebbe un infarto…. invece il nostro tempo tace.

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Il dibattito in corso nella società sullo stipendio dei managers e degli alti funzionari dello Stato, su cui non basta dividersi tra contrari e a favore, fa riesplodere una domanda: su quali princìpi si deve fondare la convivenza sociale e politica. Sul principio di efficienza e di utilità? O anche su quelli di solidarietà e di giustizia? Ci pensi qualche volta? 

Certo con la tue responsabilità gestisci una «società liquida» — quella senza certezze e punti di riferimento, in cui i rapporti umani sono fragili e poco duraturi, dove manca il bene fragile della fiducia tra cittadini —, in cui è facile imporre stili di vita e modi di conquistare il potere che sono illusori.

Per uscire devi però convincerti di un inganno: i consumi e l’«usa e getta dei legami sociali» non possono essere «considerati come unico modo per cercare la felicità e liberarsi dei conflitti sociali e politici.

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Non imitare Bush, che all’indomani dell’attentato alle Torri gemelle, quando il mondo gli crollò, invitò gli americani ancora sbigottiti a «ritornare a fare shopping» come se niente fosse.

Il primo passo urgente è quello della tua testimonianza a convertire il tuo potere in servizio, la tua forza in condivisione, la tua ricchezza in giustizia sociale.

Dobbiamo iniziare insieme a promuovere e a vivere stili di vita sobri, senza alimentare illusioni di crescita di consumi superflui. Una nuova sensibilità culturale, ad esempio, potrebbe ridurre lo spreco di cibo che gli italiani buttano ogni anno (l’equivalente di 39 miliardi di euro), per poterlo regalare o condividere con chi non ne ha.

Poi ricordati della tua storia. L’art. 4 della Costituzione italiana sancisce che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.

Nella storia della Repubblica il principio lavorista ha fatto germogliare articoli importanti come ad esempio il diritto alla «retribuzione proporzionata alla quantità e qualità» del lavoro, sufficiente per un‘«esistenza libera e dignitosa»; garantisce i riposi settimanali e ferie annuali retribuite inderogabili (art. 36 Cost.), afferma i diritti e «lo stato di parità della donna lavoratrice» (art. 37 Cost.); promette i mezzi necessari anche per il cittadino inabile al lavoro e prevede la tutela per malattia, invalidità e disabilità (art. 38 Cost.); autorizza l‘organizzazione sindacale e il diritto di sciopero (art. 39 Cost.); riconosce la libertà dell‘iniziativa privata (art. 41 Cost.), che «non può svolgersi in contrasto con l‘utilità sociale».

Come sai, nel dibattito durante la Costituente emerse per alcuni deputati che la dignità del lavoratore dipende dall’atto del creare. artigianato

Tu permetti al tuo lavorare di creare? E verso i precari quale atteggiamento hai?

Creare e ricreare, esattamente come si racconta per il lavoro di Dio nel libro della Genesi. Lavorando si cresce e si diventa uomini, attraverso il sacrificio, gli scontri, le gelosie, le opportunità, le domande del mercato, gli interessi di parte ecc. ecc.

Affinché la forza del lavoro sia creatrice bisogna riconoscere uno stipendio degno. Una scelta culturale che tocca la generazione di coloro che, insieme a te, hanno responsabilità e la possibilità di trasformare le situazioni. Ad iniziare dai lavori più umili.

Lo chiedono a grande voce i princìpi di giustizia e di eguaglianza. Rispettando questi principi basilari per la convivenza civile è giusto poi riconoscere il merito di chi ha più capacità di altri o perché il rischio di impresa deve essere premiato.

Ti voglio regalare le parole che seguono sul lavoro pensato come “atto creatore”. Si tratta della famosa poesia di Charles Péguy inclusa nel volume L’argent del 1913.

In queste righe sei richiamato a creare valore umano nel lavoro anche quando gestisci la tecnica che, se mal gestita, rischia di de-umanizzare le persone.

Queste parole vanno ascoltate anche da chi lavora e vuole ritrovare un senso nelle cose che fa. A partire dalle più semplici. Per Péguy il lavoro non doveva essere ben fatto per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.

Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. E poi doveva essere riconosciuto e retribuito.

“Un tempo gli operai non erano servi.
Lavoravano.

Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore.
La gamba di una sedia doveva essere ben fatta.

Era naturale, era inteso. Era un primato.
Non occorreva che fosse ben fatta per il salario,
o in modo proporzionale al salario.

Non doveva essere ben fatta per il padrone,
né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.

Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.

Una tradizione venuta, risalita da profondo della razza,
una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia
fosse ben fatta.

E ogni parte della sedia fosse ben fatta.
E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con
la medesima perfezione delle parti che si vedevano.

Secondo lo stesso principio delle cattedrali.
E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga.
Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione.

Il lavoro stava là. Si lavorava bene.
Non si trattava di essere visti o di non essere visti.
Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto”.

Concludo chiedendoti di partire dal poco, sii giusto, quello che puoi fare in questa società, fallo. Perdere l’atto del creare giustizia senza rilanciare un nuovo patto tra le generazioni non lascerà nulla di te nella storia degli uomini buoni e il monto intorno a te “in mancanza di un amore comune si accontenta di una paura comune” (Etienne Gilson).

Dare fiducia ai più giovani, esigere che siano preparati e sappiano fare sacrifici ma anche premiarli, apprezzarli, valorizzarli e riconoscerli il giusto stipendio… e se la sua tua scelta personale diventerà comunitaria, cambierà la società.

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