Nelson Mandela, premio Nobel per la pace del 1993, diventato presidente del Sudafrica dopo 27 anni di prigione e icona delle battaglie per la libertà, è morto a 95 anni, il 5 dicembre 2013.
Di lui è stato scritto tutto. Un aspetto marginale che forse si trascuro è stata una sua geniale intuizione: ricostruire il suo Paese dai valori dello sport.
Nel 1995, proprio grazie ai valori trasmessi dal rugby ― il rispetto della dignità, l’umiltà, il senso di appartenenza ― Nelson Mandela, allora neoeletto Presidente del Sudafrica, riuscì ad unire i sudafricani attraverso lo sport giocato dalla minoranza bianca. Egli capì che il perdono lo si doveva ricostruire nei fatti e non con le parole al punto da «sorprendere» il mondo attraverso una vera conversione del cuore: «Sorprenderli con la generosità. Comprensione. Io so cosa i bianchi ci hanno tolto ma questo è il momento di costruire una nazione» [1]. Così, il presidente Mandela rifiutò la vendetta, perdonò i suoi persecutori e ricostruisce le basi dell’unità nazionale a partire da un campo di rugby.
Il rugby era odiato dai neri che giocavano a calcio. In Sudafrica infatti i bianchi la pensano tutti come una delle guardie del corpo di Mandela: «Il calcio è uno sport da galantuomini giocato da selvaggi; il rugby è un sport da selvaggi giocato da galantuomini» [2]. Tuttavia Mandela che pochi anni prima era conosciuto come il detenuto 46.664 ― il codice di matricola nei suoi ventotto anni di prigionia ― capì che lo sport dei bianchi, la minoranza ricca e colta del Sudafrica, non poteva essere abolito ma doveva essere proposto come sport di tutto il Paese. L’opportunità che colse fu la celebrazione dei mondiali che dovevano essere giocati in Sudafrica. Intuì che l’evento non sarebbe stato solamente sportivo ma anche politico con circa un miliardo di persone nel mondo pronti a seguirlo.
Da Presidente inesperto di sport imparò il linguaggio del rugby che aveva conosciuto durante i suoi anni di prigionia osservando i comportamenti delle guardie carcerarie e volle che tutti i sudafricani imparassero e parlassero il linguaggio e i valori del rugby.
Come capita ai «profeti», venne frainteso e ostacolato proprio dai suoi. Il partito di governo nel frattempo aveva votato all’unanimità la chiusura della squadra verde-oro degli Afrikaner, ma proprio in quell’occasione Mandela andò contro tutti e tutto, difese la squadra dei bianchi e chiese agli esponenti del partito di saper perdonare con fatti concreti evitando di ricadere nella logica del «male per male». La sua posizione venne approvata, anche se soltanto per una manciata di voti in più, dalla maggioranza del partito.
Così decise di incontrare il capitano della nazionale di rugby, François Pienaar, per motivarlo e farlo sentire il rappresentante di un nuovo Paese. Gli dice: «Abbiamo bisogno di ispirazione». Tra loro, avversari politici, nacque un rapporto di fiducia al punto che Mandela gli chiese di vincere i mondiali di rugby. Un anno di tempo li separava dalla partita iniziale.
A tutti il sogno del Presidente sudafricano sembrava un’utopia, gli esperti, incluso il Ministro dello sport del suo Governo, la ritenevano una missione impossibile. Tuttavia il presidente Mandela continuava a crederci, seguiva direttamente gli allenamenti della squadra della Nazionale, andava a trovare di sorpresa i giocatori e li salutava chiamandoli per nome. Da parte sua il capitano, fino a qualche mese prima scettico sulla presidenza di Mandela, lasciò affiorare la sua «ispirazione» portando i giocatori ― di cui solo uno era di colore ― ad insegnare il gioco ai bambini dei ghetti di Soweto tra le baraccopoli. Poco dopo visitarono la prigione dove il presidente Mandela era rimasto chiuso per 27 anni.
L’esperienza, l’incontro e la conoscenza cambiarono e trasformarono l’umanità dei giocatori che smisero di essere scettici. Costruendo una squadra, Mandela ricostruì il Paese. Agli uomini della sua scorta, composto da sei bianchi e sei neri, chiarì il suo sogno: «La nazione arcobaleno nasce da qui. Intorno a me voglio le due anime del Sudafrica».
Come è stato scritto da molti analisti politici, la vittoria finale contro i rugbisti degli All Blacks della Nuova Zelanda, oltre ad essere stata una vittoria sportiva, rappresenta uno dei risultati politici più importanti del Novecento. Un popolo sull’orlo della guerra civile ha potuto superare molte delle tensioni civili e politiche riconoscendosi unito in una squadra.
Ad ispirare il presidente Mandela sono state le parole della poesia di William Ernest Henley che egli trascrisse anche per il capitano di rugby della nazionale di allora e che risuonano ancora come un orizzonte per l’attuale contesto socio-politico sudafricano:
«Dal profondo della notte che mi avvolge, / buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro, /ringrazio qualsiasi Dio possa esistere, / per l’indomabile anima mia […]. Non importa quanto sia stretta la porta,/quanto piena di castighi la vita./Io sono il padrone del mio destino:/io sono il capitano della mia anima».
[1] Dal film Invictus (2009) di Clint Eastwood, con Morgan Freeman e Matt Damon.
[2] Ivi.