L’art. 4 della Costituzione italiana sancisce che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Nella storia della Repubblica il principio lavorista ha fatto germogliare articoli importanti come ad esempio il diritto alla «retribuzione proporzionata alla quantità e qualità» del lavoro, sufficiente per un‘«esistenza libera e dignitosa»; garantisce i riposi settimanali e ferie annuali retribuite inderogabili (art. 36 Cost.), afferma i diritti e «lo stato di parità della donna lavoratrice» (art. 37 Cost.); promette i mezzi necessari anche per il cittadino inabile al lavoro e prevede la tutela per malattia, invalidità e disabilità (art. 38 Cost.); autorizza l‘organizzazione sindacale e il diritto di sciopero (art. 39 Cost.); riconosce la libertà dell‘iniziativa privata (art. 41 Cost.), che «non può svolgersi in contrasto con l‘utilità sociale».
In più, il principio lavorista, ha permesso di conquistare l‘allargamento del suffragio, migliorare lo sfruttamento economico dei più deboli, l‘affermazione, accanto ai diritti civili e politici, dei diritti sociali, di cui quelli del lavoro sono grande parte.
Nel dibattito durante la Costituente emerse per alcuni deputati che ciò che da dignità al lavoratore è l’atto del creare. Creare e ricreare, esattamente come si racconta per il lavoro di Dio nel libro della Genesi. Lavorando si cresce e si diventa uomini, attraverso il sacrificio, gli scontri, le gelosie, le opportunità, le domande del mercato, gli interessi di parte ecc. ecc.
Insomma il lavoro è un atto creatore ricordato nella famosa poesia di Charles Péguy in L’argent (1913).
In queste righe si richiama al valore del lavoro il valore del lavoro che va recuperato anche per la tecnica che rischia di de-umanizzare il lavoro. Invece per Péguy il lavoro non doveva essere ben fatto per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.
Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.
Un tempo gli operai non erano servi.
Lavoravano.
Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore.
La gamba di una sedia doveva essere ben fatta.
Era naturale, era inteso. Era un primato.
Non occorreva che fosse ben fatta per il salario,
o in modo proporzionale al salario.
Non doveva essere ben fatta per il padrone,
né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.
Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.
Una tradizione venuta, risalita da profondo della razza,
una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia
fosse ben fatta.
E ogni parte della sedia fosse ben fatta.
E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con
la medesima perfezione delle parti che si vedevano.
Secondo lo stesso principio delle cattedrali.
E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga.
Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione.
Il lavoro stava là. Si lavorava bene.
Non si trattava di essere visti o di non essere visti.
Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.
Charles Péguy in L’argent (1913)
Così è per noi e i nostri lavori, a partire dal poco, quello che si può fare in questa società che vuole farci perdere anche l’atto del creare per costruirci e crescere come uomini. Altrimenti “In mancanza di un amore comune ci si accontenta di una paura comune” (Etienne Gilson).