Tra l’antropologia della politica e la biopolitica

… il cammino tra i giovani della Associazioni nazionali sta proseguendo. Qui riporto la sintesi dell’ultimo appuntamento dal blog Pensare politicamente

 

 

L’antropologia politica da sempre si basa su una lettura del contesto, non astratta ma immersa nell’esperienza quotidiana di vita; necessita una riflessione, cui seguono un’azione propositiva e infine una valutazione teleologica, sui fini dell’azione. Le idee di antropologia politica possono variare, ma ogni elaborazione risponde a cinque domande: chi è l’altro per me? Quale modello di giustizia ho in mente? Come intendo regolare la convivenza civile (diritti e doveri, poteri e contropoteri, sovranità e forme di garanzia)? Che livello di democrazia inclusiva intendo proporre? Quale “coscienza civile” (principi di legalità, uguaglianza, solidarietà, sussidiarietà…) per il mio Paese?

L’antropologia ha per la Chiesa una descrizione dinamica (non una definizione statica!) in Gaudium et Spes I, 12 e seguenti. E la stessa Costituzione ci consegna una definizione di uomo che nasce solo, ma diventa persona come “essere in relazione” grazie alla funzione degli enti intermedi che permettono di vivere una dimensione comunitaria (concetto ben chiaro a La Pira). Oggi però viviamo un’epoca di terremoto: la destrutturazione dei significati relativizza i diritti e ne rende soggettiva ogni definizione. Di conseguenza, rischia di cadere ogni valutazione teleologica condivisa: dal cammino, che mira a un fine, si passa alla navigazione statica, più un galleggiamento, poiché manca un fine condiviso a cui tendere. Qui si pone la sfida della biopolitica, termine introdotto da Michel Foucault con Volontà di sapere (1976): inserire nella politica non solo la dimensione del bìos, la forma di vita propria di un singolo o di un gruppo; ma anche la zoé, il semplice fatto di vivere (con tutte le sue pulsioni istintive) proprio dell’uomo non come “essere in relazione”, ma come puro essere vivente.

Ecco dunque necessario l’approfondimento sulla questione gender: un termine molto in voga, che si fonda su una teoria e prevede un preciso progetto politico.

La teoria gender sostiene che l’identità sessuale non corrisponde a quanto iscritto nella natura di ciascuno; l’identità sessuale dunque non è qualcosa di naturale, ma di socialmente costruito: un fattore culturale, un principio di convivenza. La teoria si oppone all’idea che l’unica differenza sessuale sia quella tra maschio e femmina, e afferma che essa è determinata invece da fattori molteplici (orientamenti sessuali, etnia, cultura, posizione sociale…). Dunque l’obiettivo è il superamento delle identità di maschio e femmina, per arrivare a definire un’identità comprensiva di più fattori. Non troppo lontano dal nostro vissuto quotidiano, oggi Facebook USA non propone più la semplice distinzione Uomo/Donna, bensì una lista di oltre 50 caratteristiche identitarie attraverso cui definirsi. La normalizzazione dell’omosessualità è un punto chiave del movimento gender, primo passo per scindere l’identità sessuale dalla natura biologica. La definizione sessuale è invece qualcosa di variabile (teoria Queer), che può mutare più volte nel corso della vita. È insita nella teoria gender una forte visione costruttivista (l’uomo non è la sua identità, ma costruisce il suo essere nel mondo); e l’elemento di soggettività è alla base di ogni considerazione (vedi video tra i materiali dell’incontro: il processo narrativo nella descrizione dei sentimenti ha un ruolo di rilievo).

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