Secondo il gesuita Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), geologo e paleontologo, la felicità dell’uomo è inscritta nella vita del mondo e si armonizza nella sapienza e nel ritmo della creazione. La felicità piena può essere vissuta attraverso la creatività, l’amore e l’adorazione.
Nel 1942, quando Teilhard de Chardin era esiliato in Oriente, scrive una meditazione sulla felicità, tradotta in italiano per la prima volta nel 1970 in un volume che è difficile trovare in commercio: “Il Gesuita proibito – Vita ed opere di P. Teilhard de Chardin, Giancarlo Vigorelli (a cura di), Il Saggiatore, 1970.
Gli uomini, secondo il gesuita, si dividono in tre gruppi che partono per scalare una montagna…
riporto qui, uno dei brani più suggestivi:
“Immaginiamo un gruppo di escursionisti partiti per una vetta difficile (…) possiamo immaginarci il gruppo diviso in tre. Alcuni rimpiangono di avere lasciato l’albergo (poi) decidono di tornare indietro.
Altri non sono dispiaciuti per la partenza. Il sole brilla, la vista è bella. Ma perché salire più in alto? Non è meglio godersi la montagna dove ci si trova, in mezzo ai prati o nel bosco? E si sdraiano sull’ erba o esplorano i dintorni, aspettando l’ora del pic-nic. Gli ultimi, infine, i veri scalatori, non staccano gli occhi dalle cime che hanno deciso di raggiungere. E ripartono in avanti.
Degli stanchi, dei buontemponi, degli ardenti. Tre tipi di Uomo,
che ciascuno di noi porta in germe nel profondo di se stesso, e fra i quali, da sempre, si divide l’Umanità che ci circonda.
1) Degli stanchi (o dei pessimisti), per cominciare
Per questa prima categoria d’uomini, esistere è uno sbaglio o un fallimento. Siamo malamente impegnati, e di conseguenza si tratta di abbandonare il gioco, il più abilmente possibile. Portato allo estrema, e metodicizzato in una dottrina sapiente, questo atteggiamento sfocia nella saggezza hindù, per la quale l’Universo è un’illusione e una catena, o in un pessimismo schopenhaueriano. Ma in modo più smorzato e comune, la stessa disposizione si trova e si rivela in un mare di giudizi pratici che ben conoscete. «Che senso ha cercare?. Perché non si lasciano i selvaggi alloro mondo selvaggio e gli ignoranti alla loro ignoranza? Che cosa vogliono dire la Scienza e la Macchina?.. Non si sta meglio stesi che in piedi? Morti, ,invece che coricati?» Tutto questo significa, almeno implicitamente, che è preferibile essere di meno che essere di più; meglio di tutto, non essere affatto.
2) Dei buontemponi (o dei gaudenti)
Per questi uomini della seconda specie, è senz’altro meglio essere che non essere. Ma, stiamo attenti, «essere» prende allora un senso tutto particolare. Essere, vivere, per i discepoli di questa scuola, non è agire, ma godersi il presente. Godere ogni momento e di ogni cosa, gelosamente, senza perdere nulla, e soprattutto senza preoccuparsi di cambiare atteggiamento: in questo consiste la saggezza. Venga pure la sazietà, ci si rivolterà sull’ erba, ci si sgranchirà le gambe, si cambierà posizione. Non si rischia nulla per il futuro, a meno che per un eccesso di raffinatezza, non ci si avveleni godendo del rischio per il rischio, per gustare il piacere di osare o sentire il fremito della paura.
Così è per noi, sotto una forma semplicistica, l’antico edonismo pagano di Epicuro. E non molto tempo fa, nei circoli letterari questa era la stessa tendenza di un Paul Morand, o di un Montherrant o, molto più sottile, di un Gide (quello di Nourritures terrestres), per il quale l’ideale della vita è bere senza mai spegnere (ma piuttosto aumentandola) la propria sete non per riprendere forma, ma preoccupato soltanto di essere pronto a chinarsi) sempre più avidamente, su qualsiasi nuova sorgente.
Qui mi riferisco a quelli per cui la vita è un’ ascensione e una scoperta. Per gli uomini che formano questa terza categoria. non solo è meglio essere che non essere, ma c’è sempre la possibilità – ed è l’unica che interessi – di diventare qualcosa di più. Per questi conquistatori appassionati d’avventure, l’essere è inesauribile – non alla maniera di Gide, come un gioiello dalle mille sfaccettature, che si può girare in tutti i versi senza mai stancarsene, ma come un ,fuoco di calore e di luce, al quale è possibile avvicinarsi sempre più. Si possono canzonare questi uomini, trattarli da ingenui o trovarli noiosi. Ma dopo tutto sono loro che ci hanno fatto, e che preparano la Terra di Domani. .
Pessimismo, e ritorno al passato, godimento del presente, slancio verso l’avvenire. Tre atteggiamenti fondamentali, di fronte alla Vita.
E da questo, inevitabilmente, al centro stesso del nostro problema, ecco tre forme contrastanti di felicità.
1) Felicità di tranquillità. Nessuna noia, nessun rischio, nessuno sforzo. Diminuiamo i contatti, limitiamo le necessità – abbassiamo le luci – rientriamo nella nostra conchiglia. L’uomo felice è quello che penserà, sentirà e desidererà di meno.
2) Felicità di piacere, piacere immobile, o più ancora. piacere continuamente rinnovato. Lo scopo della vita non è agire e creare, ma approfittare. Ancora meno sforzo, dunque, o quel tanto necessario per cambiare coppa e liquore. Distendersi il più possibile, come la foglia ai raggi del sole, cambiare posizione a ogni istante per sentire di più: ecco la ricetta della felicità. L’uomo felice è quello che saprà gustare l’istante, che tiene fra le mani nel modo più completo.
3) Felicità di crescita o di sviluppo. Per questo terzo punto di vista. la felicità non esiste né ha valore per se stessa, cioè come oggetto che possiamo inseguire e di cui possiamo impadronirci, ma non è altro che il segno, l’effetto e come la ricompensa dell’azione convenientemente guidata. «Un sottoprodotto dello sforzo» diceva Aldous Huxley. Non basta, dunque come suggerisce il moderno edonismo, rinnovarsi in un modo qualsiasi, per essere felici. Nessun cambiamento beatifica (rende felici) a meno che non si agisca avanzando e in salita”.
L’uomo felice è dunque colui che, senza cercare direttamente la felicità, trova per di più inevitabilmente la gioia nell’atto di giungere alla pienezza e al punto estremo di se stesso, in avanti”.