Il contesto individualistico nel quale viviamo, che spesso si riduce a vivere le logiche della cultura del “Grande Fratello”, in cui si deve eliminare l’altro, vincere il premio e diventare famosi, rischia di ridurre la solidarietà a un volontarismo altruistico e sentimentale o a una confusa ideologia utopistico-distributiva. E allora è lotta di tutti contro tutti, quella descritta da Hobbes per difendere (almeno il proprio) dividendosi e rompendo i legami anche con i propri fratelli con cui quel proprio lo si aveva condiviso ed ereditato.
Chiediamoci: ma ancora senso parlare di solidarietà? Di questa parolina fastidiosa che nasce nel vocabolario del latino giuridico in solidum, che indicava l’obbligazione da parte di una persona che appartenente a un gruppo di debitori di pagare integralmente il debito?
O meglio la solidarité della rivoluzione francese del 1789 è ancora il sentimento di fratellanza, di fraternità che devono provare fra di loro i cittadini di una stessa nazione libera e democratica?
Nella Carta costituzionale è rinchiuso il significato di solidarietà che dovrebbe legare e tenere uniti i nostri rapporti sociali.
Quando l’11 settembre 1946, nella prima sottocommissione dell’Assemblea costituente, Lelio Basso e Giorgio La Pira redassero quello che sarebbe diventato l’articolo 3 della nostra Costituzione in cui la persona umana è posta al centro del nostro ordinamento, Basso spiegò la disposizione centrando la sua argomentazione sul principio di solidarietà nei termini seguenti: «Parlando di solidarietà sociale non si dice una ingenuità, (…). Il dovere della Costituzione è quello di mirare ad un massimo sforzo. (…) in senso anti-individualistico. (…) Se si toglie questo, si rompe l’equilibrio che deve esserci tra l’esercizio degli antichi diritti della persona e l’esercizio di questi diritti in senso sociale, accompagnati cioè dallo sforzo di creare una solidarietà sociale».
Alla luce del pensiero dei padri costituenti, il principio di solidarietà voleva restituire all’uomo umiliato dalla guerra la sua dignità di persona umana. Il suo fondamento ha una valenza etica e antropologica molto profonda ed è strettamente legato ai valori dell’uguaglianza, dell’efficienza, della gratuità e della libertà.
La nostra democrazia si fonda infatti sulla dimensione comunitaria della persona e la reciproca responsabilità tra i membri del gruppo.
Quando il 2 ottobre 1946 La Pira definì così il concetto di libertà davanti ai padri costituenti: «ogni libertà è fondata sulla responsabilità» verso l’altro. La solidarietà, dunque, non è altro che l’assunzione personale di responsabilità nei confronti della dignità di ogni uomo.
La Chiesa definisce il principio senza ambiguità: «La solidarietà (…) non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti».1
Alla fine, l’assunzione personale del principio rimanda a una domanda etica: chi è l’altro per me?
Infatti: «Il fondamento della solidarietà è la coscienza e ciò che stimola la sua nascita è il grido dell’uomo maltrattato da un altro uomo».2 Ma c’è di più. A livello politico il principio dovrebbe costituire criterio di discernimento per ogni scelta. Il fine a cui deve tendere ogni cultura politica è quello di sapere che ogni persona dipende da un’altra, non basta a se stessa e deve all’altro il riconoscimento della sua dignità che è quella legittima pretesa di essere considerato uguale a lui.
Per questo motivo la solidarietà inscritta nella nostra Carta costituzionale, secondo Emanuele Rossi, «Non può ritenersi dipendente dalla volontà di coloro che la soddisfano, ma va concepita come un diritto dei destinatari di essa»,3 da intendersi nel significato del preambolo della Carta europea dei diritti fondamentali, in cui si afferma che il godimento dei diritti riconosciuti nella Carta «fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri, come pure della comunità umana e delle generazioni future».4
Politiche assistenziali e paternalistiche rappresentano la negazione del principio di solidarietà. L’uso, purtroppo improprio, che la politica fa del termine solidarietà ne svilisce il senso, a tal punto che la creazione del ministero della Solidarietà sociale rischia di affidare l’applicazione del principio solamente a una parte dell’azione del governo. Al contrario, è proprio la solidarietà assunta come virtù che giustifica come democratica e umana l’azione di governo, i diritti, le libertà personali, la fiducia delle operazioni finanziarie, la responsabilità individuale, e allo stesso tempo richiama, con forza di dovere morale, la protezione dei più deboli attraverso criteri distributivi orientati al bisogno.
Nella nostra Carta costituzionale il principio di solidarietà (articolo 2) chiede ai cittadini di vivere il valore della fratellanza e della responsabilità politica ed economica, da cui discendono alcuni doveri: quello di costruire insieme un paese democratico attraverso il proprio lavoro (articolo 4), quello di voto (articolo 48), la difesa della patria (articolo 52), la fedeltà alla Repubblica (articolo 54).
Anche il principio della progressività del sistema contributivo nasce da qui: più le persone fisiche sono ricche, maggiori aliquote fiscali devono versare allo Stato, perché le ripartisca tra coloro che non hanno avuto le stesse opportunità.
Sperare che anche Maradona capisse questo concetto di straordinaria civiltà… sarebbe chiedere troppo! Bisogna essere cittadini civili per vivere questa dimensione relazionale. E’ su questa base che si crea la convivenza civile e pacifica tra gli uomini.
In fondo la Stato democratico è spesso più buono di alcuni suoi cittadini. Immaginatevi se dicesse: chi non paga le tasse non può godere né di istruzione né di cure mediche…
Questa sensibilità chiede lo sforzo di tutti per alimentare una cultura politica che si ispiri alla regola d’oro: “fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”.
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[1] Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, 1987, n. 38.